A tue, sa bida mia, istimada.

Est una gherra chene acabbu intre su tempus chi fuèt e su chi no passat mai.

Cosa lègia meda est su tastu marigosu chi lassat in buca custa bida: su chi est cumplicadu, de aici aparrat e de fàtzile c’est sceti su simple.
Lèbia m’at a praxere sa bida. Lèbia e callente che su bentu de s’istiu dae pagu cumintzadu.  Callente cummente s’abba de su mare in su merì chi est lassende passu a su sero.
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E puru chene sa friscura dispetosa de s’acua de su mengianu chitzi, chene su machimine de su maestrale, su dulche de sa bida no at èssere de aici dulche.

Pro chie est cummente deo seo, sa vida no podet èssere una. Depet cangiare de cara, che una montagna russa, artziende-si-nche e bascende-si-nche.

Su sufrimentu, is dispiagheres, is prantos nos lassant su coro scraxiadu e, a bortas, sbuidu. Ma est unu momentu chi si-nche passat.
E cando cussu arrogu de petza, mere de su corpus, torrat a si prenare, a sùere su sàmbene, tando dogna prantu est contzime pro su prexeri, sa cuntentesa e s’ispera.
Cando su coro torrat a triballare, chene pasu; candu curret e curret, sa bida meressit de èssere su chi est: imperfeta e istàbbile. E ddu depet èssere pro chi si potza tzerriai “bida”.

Seo arreneschidu a oe, a no pèrdere mai s’ispera, e apo imparadu chi su chi contat est a gosare de cada momentu, a pensare de mancu pro chi su destinu tegiat su logu pro triballare e nos ispantare.

Spassaide-bos chi sa bida est curtza. Semper tropu.
E cando nos donat prus tempus est pro si fàghere castiare cun ogru disigiosu, chi s’amore nostru no est bastante ancora.

Chi siant centos o chimbanta annos, sa bida est un’amore chi si-nche acabbat sceti unu momentu antis de sa bida matessi, candu emus a intèndere su traimentu suo; intèndere chi issa nos est lassande.

Ma si est amore, meressit de èssere bìvidu fintzas a s’urtimu alenu.

A tue, sa bida mia, istimada.

L’Autonomia non è in vendita.

Sono anni che grandi firme del giornalismo italiano parlano di Autonomia. Descrivono le regioni autonome come un anacronistico privilegio; dicono che le regioni autonome ricevono più denaro in quanto tali e ne propongono l’abolizione.

 C’è chi vuole l’Autonomia

Lombardia e Veneto hanno votato per dire la loro sul referendum “ per l’autonomia”.

I veneti hanno detto si con percentuali bulgare e una partecipazione di 60 cittadini su 100; in Lombardia una fallimento totale sia per i partecipanti che per il cattivo funzionamento del sistema elettronic di voto.Vedremo cosa succederà nei mesi a venire: la strada sarà lunga e tortuosa.

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Ma perche Maroni e Zaia vogliono essere autonomi?

Per due ragioni:

  1. Gestione dei servizi diretta da parte della Regione
  2. Per tenere in regione più denaro

La Repubblica Italiana, come quasi tutti i grandi Stati europei, riconosce ad alcuni suo territori l’autonomia. “Riconosce”, non “concede”: è una differenza che i nostri illustri intellettuali non conoscono, anche se io -illuso che si tratti di persone dalla fine intelligenza- credo che facciano finta di non conoscere.

I costituenti riconobbero l’esistenza di minoranze etniche storiche nel territorio della Repubblica.

Si tratta di minoranze etniche con:
1) Una storia propria, scarsamente legata a quella nazionale italiana.
2) Minoranze linguistiche, con una o più lingue proprie.
3) Cultura e tradizioni proprie.
4) Posizione geografica speciale.

Questi criteri caratterizzano tutte le regioni a Statuto Autonomo eccetto la Sicilia che ha sempre avuto una autonomia molto ampia, sia durante il Regno delle Due Sicilie, che durante il Regno D’Italia.

Gli straordinari intellettuali italiani dicono da anni che le regioni autonome non hanno senso perche tanto l’Europa ora non ha frontiere, i collegamenti aerei e navali sono molto più efficienti e quindi non ha più senso “concedere” l’autonomia a questi territori.

A volte quando penso agli editorialisti di punta dei quaotidiani italiani penso che occupano lo stasso stazione nel giornale di Pasolini. Mi chiedo come facciano a non provare tremenda vergogna?

è ovvio che l’autonomia non venne riconosciuta solo sulla base dei confini, ne seguendo il solo criterio dell’insularità, altrimenti regioni di confine come Veneto, Lombardia, Liguria e Piemonte o isole come l’Arcipelago Toscano, le Eolie, le Tremiti o le Pelagie  avrebbero Statuto autonomo. Le Regioni Autonome rispondo a tutti i criteri elencati e la questione geografica è forse una delle meno rilevanti. Lo Stato riconosce l’autonomia a dei territori in quanto ammette che esistano delle minoranze storiche, linguistiche e culturali che non è in grado di tutelare.

Quando un Stato legifera lo fa in funzione della maggioranza dei suoi abitanti. Quando amministra la istruzione e beni culturali lo fa dedicando la propria attenzione alla lingua alla cultura e alla storia maggioritarie. Con l’autonomia gli stati europei ammettono di non essere in grado di tutelare degli interessi minoritari e dunque legittimano l’esistenza di autonomie che hanno esattamente questa funzione. Le autonomie non sono dei privilegi concessi a questa o a quella comunità ma una necessaria difesa di minoranze che verrebbero altrimenti schiacciate dalla cultura prevalente.

I finanziamenti delle regioni autonome vengono descritti dagli articoli degli intellettuali di cui sopra, come delle sacche di spreco e privilegio. Questi dati si basano sempre su un confronto fra regioni autonome e regioni ordinarie. Si dice che le prime spendano molti più soldi per abitante e sprechino il denaro pubblico in corruzione o cose superficiali. Non di rado si critica la spesa delle autonomie in tutela delle proprie lingue storiche o nella spesa per studi storici commissionati e legati al territorio.

Questi paragoni sono quasi sempre una cialtronata.

1)Le regioni autonome hanno una gestione della spesa e in alcuni casi delle istituzioni completamente diverse da quelle delle altre regioni.
2) Ogni regione autonoma ha una sua organizzazione e fa dei patti puntuali con lo Stato centrale: questi patti cambiano da una regione all’altra.
3) Alcune regioni autonome hanno la riscossione diretta delle tasse, altre no; alcune gestiscono i trasporti pubblici in modo quasi indipendente, altre dipendono dallo Stato.
4) Le Regioni Autonome pagano e gestiscono direttamente dei servizi che in altre regioni gestisce e paga direttamente lo Stato.

Queste variabili non permettono di mettere le regioni speciali tutte insieme come si fa per quelle ordinarie, perché ognuna è diversa.
Il fatto che si dica che le Regioni autonome son più ricche di quelle ordinarie dipende da caso a caso. Ma certamente non si può fare finta di non sapere che è ovvio che una regione speciale possa spendere più denaro di una a statuto normale, perché deve gestire e pagare dei servizi di cui nelle regioni ordinarie gestisce e paga lo Stato.
Questo non significa che le regioni autonome siano delle sante e gestiscano il denaro fantasticamente e neanche che in alcuni casi ci siano dei privilegi.
Ma se metti nella stessa busta arance e cipolle il fruttivendolo non te le fa pagare allo stesso prezzo.

Ad esempio…la Sardegna

In Sardegna usiamo delle scuole gli stessi libri di storia che si usano in Lazio o in Piemonte. Su quei tomi con centinaia di pagine la storia della Sardegna compare tre volte. Una paginetta in cui si accenna di una misteriosa civiltà chiamata “nuragica” che costruiva torri con grandi pietre, punto. La seconda è normalmente una scheda di quelle di approfondimento dove si accenna alla Carta de Logu (Una sorta di antica costituzione in uso in Sardegna del Medioevo, di grande modernità e importanza) e ricompare miracolosamente alla fine del seicento dopo la guerra di successione spagnola, quando i Savoia si mettono in testa la corona del Regno di Sardegna. Fine. La cosa più divertente, però, sono le mappe che per fantasia fanno concorrenza ai migliori racconti fantasy. Il periodo medioevale è quello più creativo e porta la Sardegna ad essere annessa una volta a Pisa, un.altra a Genova, a volte allagarono, qualche altra sotto il papato: una specie di giolly!
I sardi crescono senza sapere nulla della loro storia e spesso con un racconto errato. Un frase che tutti vi diranno qui è che “in Sardegna ci sono passati tutti”. Una cosa non vera: non più che in altre parti del mediterraneo, almeno i sardi non sanno chi sono.
Questo perché la storia che si trova sui libri di scuola italiani si concentra sul racconto della storia nazionale italiana, con uno sguardo necessario a quanto accadeva in contemporanea nel resto del mondo. Un racconto in cui la Sardegna compare solo quando diventa dominata dai Savoia o quando le sue vicende viaggiano insieme a quelle di Pisa. La prima grande civiltà del Mediterraneo occidentale, quella nuragica, che ha per prima scolpito statue in occidente (prima dei greci), merita una paragrafo. 3 secoli di Giudicati scompaiono nel nulla e quasi 4 secoli di storia in comune con aragonesi e spagnoli si riducono in un tempo vago definito com “lungo medioevo”, concluso amorevolmente dai Savoia al loro arrivo.
La Sardegna si può riconoscere nell’impero romano e nel periodo sabaudo. Si può parlare di una relazione culturale con Genova e Pisa: altalenante fino al 1260, perché dipendente dalle scelte politiche di alleanza del giudice di turno, che una volta guardava a Pisa, l’altra a Genova, altre agli aragonesi, altre ancora sii metteva sotto l’ala del papato; nella seconda metà del 200 Pisa conquista la maggior parte del territorio e lo governa per circa 70 anni, fino all’arrivo degli aragonesi. Per il resto, la storia sarda sta fuori da quella italiana: fuori dal medioevo dei comuni, fuori dal rinascimento, fuori dagli esperimenti letterari della scuola siciliana e di Dante; fuori dal risorgimento. In Sardegna le chiese si costruiscono come in Spagna, la struttura sociale e l’economia rispondono a quel criteri e la lingua ufficiale, dopo il sardo in epoca giudicale, è il catalano, prima e lo spagnolo poi.

Lautonomia serve a tutelare questa specialità culturale.

Nelle scuole sarde si dovrebbe insegnare quella parte di storia che sembra non esista. Lo Stato non sa, non può o non vuole occuparsene. L’autonomia serve a questo. Serve, ad esempio, a considerare l’epoca nuragica come un periodo storico fondamentale per la cultura sarda, anche se non lo e. per quella italiana. Avere libertà di spesa in ambito culturale dovrebbe servire per decidere di destinare delle risorse in modo prioritario alla salvaguardia i questi periodi storici e non solo a quelli che interessano il periodo romano o la breve parentesi pisana, come invece accade. Finanziamenti che al Ministero potrebbero apparire di poca importanza o non prioritari, sono importanti e prioritari per una minoranza etnica sarda, tirolese, francofona o slava.

Autonomia abusiva.

Chi vi scrive non è contro l’autonomia, anzi la difende. Ma l’autonomia ha un valore che supera questioni pratiche o di denaro, ha a che fare coi diritti umani e con il rispetto della dignità dei popoli.
Ciò che stanno facendo Lobardia e Veneto è ingiusto sia per forma che per contenuto.

1) La forma è sbagliata perché si stanno spendendo tanti soldi pubblici per chiedere ai cittadini una cosa che basterebbe presentare in modo chiaro nei programmi elettorali dei partiti a delle normali elezioni regionali. Vinte le elezioni si avrebbe già il mandato dei propri elettori in questo senso. La Costituzione consente alle regioni di contrattare con lo Stato maggiori spazi di autonomia, basta chiedere un tavolo al Governo sulla base del mandato avuto e poi, allora si, far votare l’accordo raggiunto con lo Stato in un referendum.

2) Una cosa è l’autonomia, un’altra cosa è volersi tenere i soldi in tasca. Non vedo alcun motivo per cui alla Lombardia si dovrebbe riconoscere l’autonomia: non èuna minoranza linguistica, anzi ha dato un contributo definitivo con Manzoni, padre dell.italiano moderno. Non è una minoranza storica: ha le sue peculiarità ma ha partecipato pienamente alla costruzione di na cultura italiana, è perfino il siblolo dello stile, della moda e del design italiano. Infatti la propaganda autonomista in Lombardia ne fa una questione di efficienza e di denaro (una cosa mooolto lombarda! 😉 ). Si posso concepire che la Lombardia contratti con lo stato più autonomia nella gestione di alcuni servizi perché ha dimostrato efficienza di gestione, non è possibile che se ne faccia una questione di denaro. Non si può ammettere che una regione ottenga l’autonomia sulla base della ricchezza che produce. Non si può comprare l’autonomia. Poi c’è un questioncina che i leghisti si guardano bene dal ricordare. La Lombardia è molto ricca, lo sappiamo; lo è perché i lombardi sono gente stacanovista che da molto valore al lavoro. Mi piacerebbe vedere un po’ di studi sulle ore di lavoro, sulla produttività a parità di lavoro, studi che non mettano cipolle e arance nello stesso sacchetto. Ma ammettiamoche si tratti di un popolo dedito al lavoro più degli altri e che la ricchezza dei lombardi derivi dalle qualità che hanno. Diciamo che la maggior parte di queste ricchezze deriva dallo stile di vita lombardo; ma non tutto. Il fatto che Milano ospiti la Borsa e che sia stata scelta e gestita come capitale finanziaria d’Italia conta e pure molto. Quasi tutte le aziende internazionali e la maggior parte di quelle italiane hanno scelto Milano per impiantare la loro sede sociale. Non l’hanno fatto per il bel clima ma perché Milano è la capitale finanziaria d’Italia. Quanto indotto arriva a Milano e alla Lombardia dalla presenza di queste imprese? Milioni di euro e tantissimi posti di lavoro si muovono a Milano solo perché è la capitale finanziaria d’Italia. Migliaia di uffici, elettricisti, costruttori, imprese di pulizie, idraulici, segretarie/i, avvocati e notai, ristoranti, bar, botiques e mercato immobiliare vivono grazie alla presenza di queste strutture. Bisognerà pure che i lombardi riconosca questo come un privilegio, o no?

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Spostiamo la Borsa a Napoli.

Io farei una prova, direi alla Lobardia che le si da la più ampia autonomia possibile ma che la Borsa deve essere trasferita a Napoli, per aiutare l’economia partenopea a risollevarsi. Lo Stato investirà sulla città campana con una tassa dimezzata alle aziende che decidano di spostare la loro sede fiscale a Napoli. Vista la nuova funzione della città meridionale sarà necessario fare dei seri investimenti nei trasporti pubblici, sia aerei che ferroviari: sarebbe una spesa di interesse strategico nazionale.
Secondo voi come reagirebbero?

La mia è una provocazione, è chiaro, ma serva a spiegare il mio punto di vista. Io non sono contrario all’autonomia, anzi, credo che abbia un grande valore. Ma non si può riconoscere l’autonomia in proporzione al PIL di un regione, specialmente quando lo si fa senza riconoscere tutti gli elementi che portano quella regione ad essere tanto ricca. Si dice poi, che la Lombardia versa allo stato molto denaro in proporzione a quanto ne riceve, ma si finge di non sapere che le tasse non le pagano le regioni ma le persone. Sono le persone ricche che pagano più tasse di quelle povere: in Lombardia ci sono molti ricchi e dunque il gettito fiscale che lo Stato ha dalla Lombardia è superiore a quello di alte zone d’Italia. Ma se accettassimo il criterio che i soldi che la ricchezza deve rimanere dove viene prodotta stiamo cancellando un principio di eguaglianza fondamentale e creiamo una società elitaria. Vedremo ceni quartieri ricchi pretendono che il comune utilizzi per loro maggiori risorse, trascurando quelli poveri. Vedremo che le scuole nei quartieri benestanti saranno meglio finanziate di quelle popolari. Costruiamo una società ottocentesca, senza i più elementari diritti, senza la più basilare redistribuzione della ricchezza. Per non parlare del fatto che aziende che hanno il grosso della loro produzione in altre regioni arricchiscono la Lombardia con le loro sedi di rappresentanza e le tasse che pagano per le loro sedi fiscali, invece che dove producono.

Vile denaro

Il problema non è di autonomia ma di fiscalità e si risolve con un patto serio per la crescita del sud che sia nell’interesse del meridione e nn funzionale a un politica clientelare o a qualche regalino da fare alle aziende del nord che fingono di investire al sud, come già accaduto molte volte. Un accordo di buon senso, un patto per l’interesse dell’Italia che sfugga da egoismi o ragionamenti di pancia.

Tutto il resto sono chiacchiere cialtrone. Le chiacchiere che governano il dibattito pubblico e i palazzi del potere di una Repubblica dove tutto si vende e si compra: la Repubblica delle Banane.

Catania e le Eolie, per chi è capace di guardare

Non c’è nulla di superficiale al sud. Nulla che sia visibile al primo sguardo. Per questo il sud non è per tutti; il sud è per chi è capace di guardare.

Catania

Catania è un gigante lento, stanco, malinconico e assonnato. Un mastodonte che ha perduto la fiducia nel prossimo e la voglia di sperare nel futuro. È una città che potrebbe essere di una bellezza sublime ma, escluse due o tre strade e le tre piazze del centro, è sottomessa a delle menti criminali . ‘Criminale’ è un termine scelto. La parola precisa per chiamare chi, davanti alla bellezza pura, non è capace di altro se non di umana miseria. La spazzatura e il degrado si sommano alla decadenza dietro facciate barocche e fontane maestose. Un quartiere di prostitute e auto ormai inutilizzabili sta a pochi passi da stazione e porto, in pieno centro storico. Eppure la ricchezza decadente dei palazzi signorili racconta di una Sicilia più che prospera: opulenta.

Ha tre piazze, Catania, che valgono il viaggio. Sono di una bellezza che stordisce. Ha i giardini ottocenteschi più eleganti che abbia mai visto. Un’oasi di frescura per una città calda e lenta. Un luogo senza tempo.

 

Non merita mezze misure questo pezzo di Sicilia. Le sfumature si, quelle necessarie alla sua indole barocca, messe tutte insieme per stupire chi le vede. Qui una cosa bella lasciata sola non ha senso, la bellezza merita una rumorosa compagnia. Eppure il brutto, il degrado e l’emarginazione non vanno lasciati soli.

Catania è barocca anche quando è liberty. Lo è in tutto, ma con eleganza.

A Catania non si mangia si stordiscono le papille gustative. Questa città, aperta come le vocali della sua lingua, ha poco tempo da spendere per i convenevoli: la gentilezza e il rispetto non si coprono col tono della voce. Poca ipocrisia è concessa, meglio la sincerità: sorridi se sei allegro, appari annoiato se lo sei, alza la voce se è il momento. Catania parla catanese, senza timore, con naturalezza e piacere.

Qui in questo pezzo di Sicilia il bello e il brutto vivono insieme senza disturbarsi troppo l’un l’altro.

È tempo che il bello si armi per fare la guerra al brutto, qui a Catania. Questa città lo merita. Se lo meritano i suoi abitanti chi vi scrive non può saperlo.

Psp (post scriptum politico). Il sindaco di Catania è del PD, ex Ministro della Repubblica e influente elefante del partito…non ho sentito dire molto sulla spazzatura, le prostitute in strada, di giorno, in pieno centro, le auto senza ruote, i divani vecchi sui marciapiedi e l’abusivismo degli ambulanti. Anzi non ho sentito dire nulla.

Isole Eolie

Lipari

Delizioso borgo adagiato ai piedi di una rocca che pullula di un turismo di massa ma tranquillo. Tante barche, poche spiagge. Paesaggi mozzafiato tra scogliere scure che si sono prese a forza un loro pezzo di mare. È come se questa isola avesse costretto il blu unico del Mare di Sicilia a lasciarle un po’ di spazio.

Lipari è uno scoglio alto quanto una montagna che cola verso il mare.

Salina

Abbiamo tutti un’isola deserta della mente; un’utopia utile, come l’acqua sulla brace, a spegnare le delusioni della città, i ritmi incalzanti del lavoro e ogni ansia del domani.

Salina somiglia a quell’utopia: Piccola, indifferente al mondo fuori. Se non fosse per i turisti che l’assaltano rimarrebbe un piccolo paradiso per chi chiede una vita dolceamara.

Ps. Del pane cunzatu vi diranno tutti: prendetene metà. Voi lo prenderete intero e pagherete per il vostro peccato.

Panarea

Un’isola bella e bianca, tutta bianca. Tutta pulita, tutta ben tenuta, tutta uguale. Una Costa Smeralda in miniatura. Non si riconosce il vecchio dal nuovo, non ci troverete persone vere ma ristoranti, case vacanza, negozi di souvenir e gente ricca, circondata dal mare più bello e più limpido. Bella e finta.

Stromboli

Un’isola magica abitata da persone che vivono ai piedi di un vulcano che sputa lava. Tutta bianca, molto turistica ma genuina. Un luogo di gente che “se la vive”. Un luogo di intrepidi equilibristi sempre in bilico sul filo. Le sue spiagge nere nere, fatte di polvere vulcanica e le sue rocce pastose e scure la fanno sembrare un mondo a parte.

E forse Stromboli è proprio questo: un mondo a parte, dove le persone vivono alla giornata, in una precarietà rassicurante con un ottimismo ineguagliabile. Tanto ottimisti che hanno imposto il bianco lucente delle case a questo gigante nero. Salgono tutti su fino alla piazza del paese, ventilata e piena di balconate panoramiche. C’è chi sale ancora più su fino alla bocca del vulcano. Noi ci limitiamo a guardarlo dal mare all’imbrunire, questo gigante sputafuoco. È una pentola che bolle Stromboli.

Le Eolie sono disegnate dal vento e dalla natura più violenta. Le genti che le abitano hanno imparato a convivere con dolcezza con quei giganti di foco, con quei venti che soffiano sempre, almeno un pochino.

Garibaldi disse della Maddalena che era il posto perfetto per un marinaio come lui perche si sentiva come su una nave in mezzo al mare. Le Eolie le avrebbe amate ancor di più. Gli eoliani sono tutti dei marinai che sfidano il mare.

Limba sarda: standard o non standard, questo è il problema.

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Quando si parla del sardo standard ci si perde solitamente in disquisizioni estetiche perdendo di vista ciò che ne motiva la necessità.

Se noi sardi non capiamo questo, partiamo da sconfitti.

Il mio non è un parere, solo una constatazione e vi spiego perche.

Viva o Morta.

La domanda a cui dovete rispondere è: volete un sardo vivo o un sardo morto?
Se lo volete morto – sostituito dall’italiano- dobbiamo lasciare tutto esattamente com’è. Basta aspettare e il sardo diventerà come il latino. Uccidere il sardo non mi sembra un grande segno di rispetto e amore per le varianti locali e le loro sfumature.


Prendere esempio.

Se volete un sardo vivo dovete guardare ai modelli che hanno funzionato nel resto del mondo (Catalogna, Paesi Baschi, Fiandre, Malta e mille altri). In tutti questi casi la lingua è stata adattata in regime di co-ufficialità, inserita con uno standard nelle scuole in modo paritario con la lingua nazionale (che è sempre più forte e quindi prevalente), nelle amministrazioni pubbliche e nei media. Questa è l’unica strada che abbia funzionato in minoranze linguistiche di grandi stati europei.

Essere realistici.

Per fare questo non si possono avere per i 377 comuni sardi, 377: libri di grammatica, tv, radio, traduzioni di documenti ufficiali o scuole di formazione di insegnanti. Non sarebbe neanche sostenibile dal punto di vista economico e inapplicabile dal punto di vista pratico: pensiamo solo alla non mobilità del corpo docente. Una lingua minoritaria per resistere alla lingua forte (nel nostro caso l’italiano) ha bisogno di anticorpi, così soccombe.

Pensare al futuro.


Non pensate di dare un futuro al sardo facendolo parlare a chi già lo parla. I giovani che entrano a scuola non parlano il sardo come lingua madre: pensate che un’oretta alla settimana di dialetto del paese/città, da un insegnate formato non si sa come, possa modificare le cose? Pensate che un bambino circondato da video, film, notizie, letteratura, documenti ufficiali in italiano riesca ad apprendere una lingua complessa come il sardo senza una scuola realmente bilingue, senza una società bilingue? Ovviamente quel bambino crescerà – senza averlo scelto – con una lingua sola, quando potrebbe, invece, essere bilingue. Approfitterebbe di tutti benefici cognitivi che comporta il bilinguismo e della maggiore facilità di apprendere lingue nuove rispetto ai monolingue.
Chiedetelo ai catalani e vi insegneranno cosa vuol dire “immersione linguistica”.


Amici e nemici dei dialetti.

Non so con quale criterio, ma si mette in competizione sempre la necessità di una lingua standard all’esistenza dei dialetti. Nessuno in Sardegna ha mai dichiarato, ne lavorato, per abolire i dialetti. Nessun promotore di quale che sa modello di lingua standard ha mai voluto cancellare i dialetti. Sarebbe assurdo, dato che chiunque parli il sardo oggi, parla un dialetto del sardo! Le due cose sono più che compatibili e dire che deve esistere uno standard e delle regole di grammatica come in qualsiasi altra lingua normale non significa denigrare chi parla il sardo con cui è cresciuto. Anzi, tutto il contrario. Vuol dire dargli delle regole per scriverlo.

I falsi miti sulla LSC.


a) I relatori della proposta delle regole ortografiche – attualmente ufficiali- della Regione Sardegna hanno commesso un immenso errore nel chiamare la loro creatura “Limba Sarda Comuna”. Hanno creato da subito un malinteso, facendo pensare di aver “inventato” una lingua nuova. Ma la LSC è semplicemente l’acronimo con cui è stato chiamato il sardo standard e le sue regole grammaticali di scrittura, non di pronuncia. Il sardo parlato non viene minimamente intaccato.


b) Il secondo errore ha a che fare con il fatto che il documento della LSC aveva una funzione burocratica, diretta ai dipendenti regionali, per redigere documenti in limba, che fossero il più possibile universali al livello di comprensione. Questo ha lasciato intendere che si trattasse di regole ferree, con le quali si faceva divieto di impiegare qualsiasi localismo.

Il mostro LSC

La LSC è diventata una specie di mostrounu mommoti– che vuole cancellare il sardo “vero”, le varianti locali e l’identità “calda” della lingua del focolare domestico. Chi lo sostiene in buonafede, spesso non ha capito come funziona uno standard, che obiettivi si pone e quale è l’uso che se ne deve fare.
In realtà fuori dal palazzo della Regione si possono (eccome!) utilizzare le regole standard anche per le parlate locali. Basta capire che la pronuncia, e le regole di trasposizione di questa nella scrittura, sono una pura astrazione. Come in ogni lingua, del resto.

Scrivo come mi pare.


Quando diciamo che non vogliamo la LSC o altre proposte ortografiche, di fatto stiamo dicendo quasi sempre che vogliamo scrivere il sardo con le regole dell’italiano. Diamo per scontato che le regole di corrispondenza tra scritto e parlato siano quelle e basta. Queste regole, invece, cambiano da lingua a lingua. Il suono italiano “gn” si rappresenta (scrive) nello stesso modo in francese ma “ñ” in spagnolo. Il suono “gl” in francese e in spagnolo si scrive “ll”. Il suono “ch” in inglese si rappresenta con “k”, in spagnolo e in francese con “qu”. Significa mica che i francesi e gli spagnoli scrivono male e non rispettano i suoni delle loro parlate?
Ovvio che no. Vuol dire soltanto che ogni lingua ha le sue “regole” che si “rappresenta” in modo convenzionale e nel rispetto di abitudini letterarie consolidate.

 

Parlo come mangio.


Diamo per scontato che le lingue standard abbiano una corrispondenza automatica tra parlato e scritto: nulla di più falso. In tutte le lingue esistono diversi accenti che determinano una diversa corrispondenza tra scritto e pronuncia. In inglese la pronuncia cambia radicalmente da Londra a fuori Londra, da una città all’altra dal Galles alla Scozia, trasformandosi enormemente nelle varie zone degli USA, in Australia, in India e in tutti gli altri stati dove viene utilizzata ufficialmente. Altrettanto accade con lo spagnolo nelle varie regioni della Spagna e nel resto dei paesi latinoamericani. In alcune parti della Francia la erre si pronuncia come in italiano e non esiste la erre moscia. In questi tre casi parliamo di centinaia di milioni di persone sparsi per il mondo, con centinaia di accenti che che attraversano più continenti. Per ognuna di queste lingue esiste UN solo standard di scrittura. Eppure ognuno continua a parlare come gli pare.

Ciò comporta che in inglese “ch”, “r”, “t”, e tutte le vocali corrispondano a decine di suoni diversi a seconda delle zone. In spagnolo “j”, “ll”, “c”, “z” o “ch” e le vocali, vengono pronunciate in modi diversissimi, a volte diventano afone.

Ma questo accade anche in italiano. Anche se a scuola ci dicono subito che l’italiano si scrive come si parla, non è vero. Anche l’italiano secondo dizione non sempre legge ciò che è scritto (es. la “i” di cielo che si scrive ma non si legge), ma si rispetta quasi sempre la corrispondenza. L’italiano dei teatri però è una lingua che non esiste naturalmente in nessuna parte dell’Italia, toscana compresa. Si tratta di suoni inventati che solo chi “artificializza” la propria pronuncia è in grado di riprodurre secondo norma.

A scuola la maestra detta la frase: “ci sono cento casse di gemme preziose”.
Se di Bologna dirà: “ tzi suno zento cassse di zemme pretziose”
Se di Milano: “ Ci sunu cinto casse di giemme prziusi”
se di Firenze: “ Sci sono scento hasse di jemme phreziusse”
Se di Avellino: “Gi sono gendo gasse di gemme pretziosse”
Eppure tutte queste maestre scriveranno la frase secondo la norma. Nessuno gli chiede di parlare come Gassman, solo di scrivere secondo norma.

 

Andende vs andendi.

 

Quando si parla di standard per il sardo si parla di regole di scrittura, punto. Questo significa che quando scriviamo lo facciamo rispettando la storia letteraria della lingua e delle norme consolidate, oltre che il buonsenso. Dire che il plurale finisce on “s” come per la parola “bellas”, la terza persona sempre in “t” e che “est” che si scrive alla latina, vuol dire far riferimento alla storia di tutto il sardo scritto che così faceva già prima dell’anno mille e fino agli anni ’70. Non vuol dire indicare una pronuncia. Per cui “Bellas” si pronuncerà diversamente a seconda delle zone, esattamente come accade con l’italiano. La maggior parte delle regole che la LSC, la LSU o proposte del mondo intellettuale, hanno messo nero su bianco, sono banali e ovvie per chiunque conosca un pochino di letteratura in sardo. Quando lo standard ci dice che dobbiamo scrivere “andende”, “est”, “pedra”, non ci sta vietando di non pronunciare “addend-i”, “est-i/est-e” o “perda”. Esattamente come in italiano un romagnolo dice “zento” invece di “cento”, un toscano “hohahola” o “eternitte” invece di “Coca-Cola” e “eternit” o un Milanese dice che vive a “Milanu” ma il cartello di ingesso in città dice “Milano”. Può essere che in futuro si scelga una pronuncia standard per il sardo, come la dizione in italiano, oppure più pronunce standard come l’inglese (es. Queen’s English, australiano o americano). Fino a quel momento gli standard di scrittura hanno la sola funzione di dirci come si riproduce graficamente una parola e quale forma preferire: quello che fa l’Accademia della crusca quando gli chiedi con quante “t” si scrive “soprattutto” o se “scuola” ha la “q” o la “c”. Convenzioni.

Lingua tecnologica.

Una lingua viva nel 2017 non può star fuori dalla tecnologia. Il sardo è da questo punto di vista una lingua viva. Esistono molte voci di Wikipedia in sardo, un browser tradotto in sardo, Facebook in sardo, sintetizzatori vocali (Sintesa) e traduttori automatici. tutti questi strumenti sono possibili solo perché esiste uno standard che consente di pescare da testi omogenei nella scrittura e convenzioni. Una lingua minore come il sardo se fatta a spezzatino da mille criteri di scrittura personali, non potrebbe avere alcun futuro in questo mondo.

Il sardo conviene.


In catalogna uno spot che vuole passare sulla tv regionale deve essere in catalano; significa che ci sono molti studi di doppiaggio e registrazione che esistono solo perché esiste il bilinguismo. In Alto Adige i dipendenti pubblici devono essere bilingui, questo garantisce ai locali di avere accesso prioritario ai posti pubblici, noi invece emigriamo. Le minoranze linguistiche italiane hanno diritto ad una densità di scuole per abitante più alta, noi chiudiamo le scuole nei piccoli paesi. Alto Adige e Val d’Aosta hanno più deputati perché sono minoranza linguistica, noi no perché pur essendo la prima per numero di persone non la valorizziamo.

Gran finale

Il sardo per sopravvivere deve essere lingua ufficiale, deve avere regole base standard ed essere impiegata in ogni ambito della vita pubblica e privata insieme all’italiano e allo studio delle lingue straniere. Non si tratta di una questione ideologica ma di una esigenza pratica.
Diversamente il sardo muore, anzi sta già morendo.

Se avete una opinione diversa mi dovete dire come ottenete il risultato: come salvate il sardo dalla sorte che gli tocca.

Il resto sono belle parole al capezzale di un moribondo.

 

Casteddu s’est ischidende.

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Istimadu Lobina, oe apo fatu una passillada in su tzentru de Casteddu. Apo pensadu chi su chi as contadu de sa capitale in “Il fatto quotidiano” est schet sa cara iscuria.

Femmu passillende in sa Ruga de Roma e apo bidu is bar, is ristorantes de sa Marina e su melting-pot suo. M’arregordu comente fiat cando andamu a iscola innia. M’arregordu sa tristura decadente de cussu cuarteri, sbuidu de is abitantes suos, mandados in edifìtzios populares cumintzende dae su pusti-guerra finas a is annos noranta. Fiat unu gheto pro immigrados. Oe est unu mundu cuntzentradu, esèmpiu de s’integratzione possìbile. Apo passilladu in su Corso, antis fiant is màchinas a passillare in su Corso. Ti ses agatadu mai de cantu sunt bellos cossos palatzos? As pensadu mai a ite bella fotografia si podet fàghere immoe castiende cara a Pratza Yenne?

Apo pensadu a cantu at essere bellu cando sa pedra s’at a pinnigare totu su logu suo, su chi dd’at furadu s’asfaltu. Apo pensadu a cantas da cussas butegas, iscuridas dae is tzentros cummertziales, ant a torrare a bìvere. At essere sa ruga prus bella su Corso.

 

Apo caminadu in Carrera Manno arribbende finas a Carrera Garibaldi e a sa pratza sua. A die de oe est de is pipios chi ci giogant a bocia. Ci fiant turistas, no fiant meda, nemmancu tropu, su chi bastat. Unu bentigheddu lèbiu at donadu friscura a una die tranchilla de primavera. Ischiet a abarrare cittìa Casteddu. Seu passadu in pratzita Martiri. Naraiant chi sa protzessione chi dae sèculos est semper passada dae innia depiat parare pro culpa de is traballos chi ci fiant faghende. Sa pratza est acabada e si nche podet caminare; sa processione puru est passada.

No apo potziu resistire e cun destinu Pratza Garibaldi seu basciadu in Biddanoa. Ma cantu est bella? De aici bella chi ci emmo a andare a bivere cras! Est unu cuarteri cun s’ànima, aunde s’iscurtant is personas chistionare sa limba issoro, sa nostra. C’est su chiostru de su monastèriu abertu in pratza San Giacomo. Su sole de su sero carìtziat sa pedra bianca. Gòticu catalanu e Romànicu m’arregordant a Bartzellona e un’arrogu de istòria e identidade chi si sunt isfortzados a iscantzellare ma chi bivet in nosu che a unu tzerriu irratzionale o ,forsis, est cosa de chìmica. Su calcare casteddaju t’arregordat cantos tonos bi sunt intre su biancu e s’ocra. Arribbo in pratza Garibaldi, dae pagu aberta torra e totu pedonale. M’arregordu ite fiat sa felitzidade de cùrrere lìberu dae pensamentos cun su bentu in sa cara a pitzus de una bicicleta pitica che a mei. Pipius de cada edade dd’ant giai conchistada cudda pratza. Deo dd’emo a lassare a issos a usucapione. Su viagiu miu s’acabbat in Ruga Sonnino, in su mentres duas bitzicletas mi passant. No ci fiat nemmancu s’idea de is bitzicletas, in Casteddu, deghe annos a oe. Forsis is chi apo contadu funt sceti liftings chene contenidu. Traballos pubricos pro su ‘pòpolu boe’. E puru sa durchesa de sa bida in Casteddu, su prexiu de is pipios, s’istile de bida rivolutzionadu, is turistas. A mie no mi paret estètica chene contenidu. A mie mi paret chi su tessutu sotziale de su coro de Casteddu bivet.

Problemas ci nde sunt? Milli. Casteddu est imperfeta, iscontat milli arretradesas, fìgias de is bombas e de una classe polìtica chi pranghet pro su pregiu a s’inaugurada de unu parchègiu nou. Una Casteddu de ‘palatzinaros’ e ‘cimentaros’, chene istrategias de isvilupu. Ma est cangiada custa tzitade. Est sutzèdida calicuna cosa chi dd’at ischidada in su profundu suo. Est pagu, tropu pagu ancora. Ma si est chi oe si podet figurare unu benidore, chi si podet a su mancu chistionare de Casteddu “tzitade capitale” est proite custa est una tzitade curiosa meda, prus de su chi si contat, prus projetada a su benidore. Est beru, mancat una visione de capitale, Casteddu sighet capitale de isse matessi.

Una amiga mia italiana m’at nau chi a pàrrere suo s’at a bortare in una pitica Bartzellona. Semus lontanos. Sa Sardigna intrea est luntana dae isfrutare su potentziale suo. Bivimus una gherra de identidades e Casteddu est capitale de custa gherra. Ma semus in sa ruga bona. Emmo a bòlere su dòpiu de is bitzicletas, prus meda turistas, unu progetu culturale a beru chi siat pensadu pro is annos chi benint.

Però Casteddu est camminende in sa ruga bona. No est de nos setzere pregiados, ma nemmancu sighire cun custu contu de “in Casteddu non c’est nudda”, “andat totu male” o “totu is butegas sunt serrende”. Est beros, ma no est una nova. No at bìvidu mai una richesa opulenta, custa tzitade. Problemas meda no nde eus cantzelladu in custos annos, ma no eus nemmancu fuliadu su tempus. Si podet e si depet pedire meda de prus, ma no serramus is ogros, bolemu-si unu pagu de bene. Casteddu est mellus oe de deghe annos a como. Prus bella meda. E su mèritu est de is casteddajos. Si ddu depemus narare ” bravos” dogna tantu. Unu “bravos” seriu e ratzionale. Unu “bravos” chi no nos assolvat ma chi nos impongiat de faghere bene e mellus. Sinunca eus a pensare chi de ispera no ci nde est.

Imbetzes c’est.

 

Cagliari si sta svegliado.

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Caro Lobina, oggi ho fatto una passeggiata in centro a Cagliari e ho pensato che quello che tu hai raccontato di Cagliari su ” Il fatto quotidiano” è solo il suo lato oscuro.

Ho camminato in via Roma e ho visto che i bar, i ristoranti della Marina e il suo melting pot. Mi ricordo com’era quando andavo a scuola li. Mi ricordo la decadenza triste di quel quartiere svuotato dai suoi abitanti dirottati in costruzioni popolari dal dopoguerra agli anni ’90. Era un ghetto per immigrati, oggi è un mondo concentrato, esempio dell’integrazione possibile. Ho passeggiato per il Corso, prima erano le macchine a passeggiare nel Corso. Ti eri mai accorto di quanto sono belli quei palazzi? Avevi mai pensato a che bella foto si può fare ora guardando verso piazza Yenne?

Ho pensato a quanto sarà bello quando la pietra si riprenderà il posto che le ha rubato l’asfalto. Ho pensato a quante di quelle attività oscurate dai centri commerciali riprenderanno vita. Diventerà la strada più bella il Corso.

Ho camminato per Via Manno e poi per Via Garibaldi. Per ora è dei bambini che ci giocano a pallone. C’erano diversi turisti, non troppi e non pochi, quanto basta. La brezza decisa ha rinfrescato una giornata tranquilla di primavera. Sa stare in silenzio Cagliari. Sono passato per piazzetta Martiri. Dicevano che la processione che da secoli è sempre passata li si sarebbe dovuta fermare a causa lavori. La piazza è finita e percorribile; la processione è passata. Non ho resistito e per scendere verso piazza Garibaldi ho fatto una passeggiata per Biddanoa. Ma che bella è diventata? Bella tanto che ci vivrei domani! È un quartiere con un’anima, dove si ascoltano le persone che parlano la lingua loro, la nostra. C’è il chiostro del monastero aperto in piazza San Giacomo. Il sole del pomeriggio accarezza la pietra bianca, il romanico e il gotico catalano mi ricordano Barcellona e un pezzo di storia e di identità che si sono sforzati di cancellare ma che vive in noi come un richiamo irrazionale o forse è chimica. Il calcare casteddaio ti ricorda quanti toni separano il bianco dall’ocra. Arrivo in piazza Garibaldi, appena riaperta e tutta pedonale. Mi ricordo cos’era la felicità di sfrecciare libero dai pensieri col vento in faccia su una bici piccola come me. Bambini di ogni età l’hanno già conquistata quella piazza. Io la cederei a loro per usucapione. Il mio viaggio finisce su via Sonnino, mentre due o tre bici mi sorpassano sulla strada. Non esisteva neanche l’idea delle biciclette a Cagliari dieci anni fa. Forse quelli che ho raccontato per te sono solo dei lifting senza contenuti. Lavori pubblici per il popolo bue. Eppure la dolcezza della vita di Cagliari, la felicità dei bambini, lo stile di vita rivoluzionato, i turisti. A me non sembra estetica senza contenuto. A me sembra che il tessuto sociale del cuore di Cagliari vive.

Ci sono problemi? Mille. Cagliari è imperfetta, sconta mille arretratezze, frutto delle bombe e di una classe politica che si commuoveva all’inaugurazione di ogni nuovo parcheggio. Una Cagliari di palazzinari e cementari, senza idea di società, senza strategie di sviluppo. È cambiata questa città. È successo qualcosa che l’ha risvegliata nel profondo. È poco, ancora troppo, troppo, poco. Ma se oggi si può immaginare un futuro, se si può anche solo parlare di Cagliari Capitale, è perché questa è una città molto più curiosa di quanto si racconta, molto più proiettata al futuro. È vero manca una visione da capitale, Cagliari continua ad essere solo capitale di se stessa.

Un’amica italiana mi ha detto che secondo lei sarà presto come una piccola Barcellona. Siamo lontani dall’esserlo. La Sardegna intera è lontana dallo sfruttare il proprio potenziale. Viviamo un conflitto di identità, e Cagliari è la capitale di questo conflitto. Ma siamo sulla buona strada. Vorrei dieci volte più biciclette, molti più turisti, un progetto culturale serio e a lungo termine.

Però Cagliari è sulla buona strada. Non c’è da sederci soddisfatti, ma neanche continuare con questa litania di ‘a Cagliari non c’è nulla’, ‘va tutto male’, ‘i negozi chiudono’. Perche è vero, ma non è una novità. Non ha mai vissuto una opulenta ricchezza, questa città. Non abbiamo cancellato molti problemi in questi anni, ma neanche sprecato il tempo. Si può e si deve ambire a molto di più, ma non tappiamoci gli occhi, vogliamoci un po’ bene. Cagliari è meglio oggi di 10 anno fa. Molto meglio. È merito dei cagliaritani. Diciamocelo ‘bravi’ noi sardi ogni tanto. Un ‘bravi’ serio e razionale. Un ‘bravi’ che non ci assolve ma che ci spinge a fare bene e meglio. Altrimenti penseremo che non c’è speranza.

Invece c’è.

Sono viziato

© Dave Fleming/ UNP 0845 600 7737
ALDI  32325 Alton Grand Opening

Sono viziato.

Non ho mai vissuto in periferia, circondato da palazzoni a mille piani, tanto cemento e macchine. Ho avuto la fortuna di crescere in quelli che nella mia Sardegna si chiamano ‘villaggi’ (Simili ai subarbs americani). Villette unifamiliari con il giardino, vicine alla campagna e al mare. Ho studiano nel centro città, tra viuzze e palazzi disegnati dai secoli, dove le persone resistono all’invasione delle auto, dove ancora ci sono segni della vita di quartiere e la gente si saluta per strada.

Qui no. Qui nella periferia vera è il cemento che vince. L’asfalto e le auto. Qui vince l’alienazione, qui la società è spaccata in tanti io, soli, spaventati, a volte infastiditi, che lottano ogni giorno per ritagliarsi uno spazio di esistenza e difendere la propria dignità. Qui il supermercato riserva uno spettacolo inquinante.

Supermercato

Se avete dubbi sulla direzione che il nostro mondo occidentale sta prendendo, mettetevi in un angolo in un grande centro commerciale di periferia e osservate le persone; osservate chi siamo diventati. Si arriva in macchina, girando nel parcheggio alla ricerca del posto più vicino possibile all’entrata; per poi rassegnarsi a quello non vicino. Si entra col carrello, un grande carrello, che quasi sempre si riempie. C’è il parcheggio selvaggio dei carrelli e dei cestini, perché non importa se da fastidio il mio carrello in mezzo alla corsia, non ha importanza se qualcuno inciampa sul mio cestino o se con il menefreghismo impedisco il passaggio: io parcheggio dove mi pare! “Chi va sano va piano e va lontano” diceva sempre mia nonna: è arrivata con la mente lucida a 98 anni, forse torto non aveva. Invece nei supermercati corrono tutti, presi dalla fretta. Che sia lunedì o sabato, loro hanno fretta. Fretta di comprare, fretta di consumare. Non importa chi si urta, chi si scansa per riempire la propria sacca di pomodori o per pesare le banane. Ciò che conta è arrivare primi, fare in fretta, comprare il più possibile al prezzo più conveniente possibile. Così la spesa diventa faticosa e stressante. Ci sono mariti e mogli che litigano, persone irritate dalla lentezza del vecchietto col carrello davanti a se, oggetti che cadono urtati da chi fa finta di niente continua ad andare e commessi stanchi di farsi strada chiedendo il permesso per scaricare la merce in mezzo ad una folla di zombie.

I bambini, futuro del mondo

Ma la cosa più triste sono i bambini; come stiamo educando il futuro del mondo? I bambini al supermercato piangono; stanno in mezzo a mille cose da mangiare, mille giocattoli, mille oggetti che raccontano l’opulenza di un mondo mai tanto ricco, eppure piangono. Piangono perché fanno i capricci per un giocattolo, per una merendina o perche si annoiano. Alcuni genitori mostrano loro gli oggetti, si fanno aiutare a fare la spesa, spiegando gli sconti, il rapporto qualità prezzo o delle scadenze. C’è chi per tenerli buoni usa un Tablet o uno smatphone, trucchetto da supermercato come da pizzeria. Quando un bambino piange è difficile rimanere impassibili, se poi il bambino è tuo figlio è impossibile. Ma il lavoro di un genitore non consiste nel non far piangere il proprio figlio, consiste nell’educarlo. Che messaggio trasmettiamo ad un bambino quando ne assecondiamo i capricci? Che può avere tutto, basta frignare. Anche se nella vita non funziona così. Che adulto sarà un bambino educato al consumismo fin da piccolissimo? Un adulto consumista, pronto a passare i suoi sabati chiuso in un centro commerciale a comprare. Che educazione diamo ad un bambino alienato davanti ad un Tablet invece che educato alla pazienza che i rapporti umani comportano? Un bambino non educato ad annoiarsi o ad ascoltare – seduto in pizzeria- i discorsi degli adulti, per imparare da quei discorsi. Recentemente un maestro di scuola spiegava quali sono i problemi con i bambini di oggi per un insegnante. Raccontava che due dei più grandi problemi sono il calo dell’attenzione e la difficolta di relazionarsi in modo emotivo e generoso con gli altri bambini. Usiamo la tecnologia e il consumismo per liberarci del pianto dei nostri figli, senza pensare al significato di quel pianto. È comodo lasciare un bambino davanti al Tablet a guardare cartoni o giocare con qualche app, ma è il miglior modo di voler male a nostro figlio; il migliore per far male i genitori. I bambini si devono annoiare, i bambini devono imparare il valore ed il senso del denaro da adulti, devono usare la noia per imparare ad immaginare; per imparare a pensare. E se piangono per capriccio, quello è un pianto sano, lasciate scorrere quelle lacrime perché li cureranno dai vizi, li educheranno alla vita.

Soli

I centri commerciali sono l’esempio più forte di una società sbagliata e stupida, destinata a fallire. Una società dove le macchine hanno sostituito le persone; i centri commerciali il mercato di quartiere; le aiuole i giardinetti e i canali tv per bambini le partite a pallone o a campana con gli amichetti sotto casa. I problemi sono lo smog, il sovrappeso, i mal di vivere e la paura. Perche se ci divide solo un muro o un pavimento non salutiamo più il vicino di casa, non sappiamo come si chiama, ma ascoltiamo i suoi passi, conosciamo i suoi gusti musicali, le sue liti coniugali e i film che guarda. In alcuni appartamenti poggiando una mano sulla parte che ci divide potremmo sentire il calore della sua. Il calore umano di quell’essere anonimo che abita con noi.

Liberi

Rimango abituato all’umanità delle relazioni. Rimango disponibile verso il prossimo, dando per scontato di avere di fronte una brava persona. Non è ingenuità o utopia stupida, ma una scelta di principio, di umanità. Rimango attaccato ai tempi della natura, che soli sanno connetterci al mondo. Sono geloso del silenzio, che è il tempo della musica dei pensieri. Continuo a credere che il tempo vada assaporato. La vita non si consuma, si assapora. Per essere liberi davvero dobbiamo ripudiare questa società ingorda; tanto che rischia di estinguersi per cannibalismo. Ci stiamo condannando alla solitudine, all’insoddisfazione, ad un mondo tutto umanizzato, a non poter respirare l’aria inquinata, ad uccidere i ghiacciai. Ci condanniamo ad essere eterni insoddisfatti, mai sazi di quel che abbiamo, sempre desiderosi di consumare ancora, come dei drogati del consumo.

Fermatevi un momento a pensare a quello che potremmo fare con le conoscenze che abbiamo. Fermatevi a pensare a come potremmo vivere se fossimo più interessati alla qualità che alla quantità. Provate a respirare il respiro della natura e a sentirvi parte di questo mondo che sembra tanto piccolo ma che è immenso.

Non ho ancora i capelli bianchi per insegnare, ne saggezza da regalare; non credo di essere neanche troppo originale. Posso solo dire cosa ho capito: urge cambiare; rallentare; pensare; vivere.

Clandestini

Pensavo.

Abbiamo paura di uomini che varcano il mare dopo aver passato deserti, galere, fame e guerra. Temiamo uomini che solcano il mare consapevoli che il loro ultimo respiro potrebbe venire affogato; il loro corpo trascinato nel nero-blu di un mare infinito. Uomini sfregiati dalla vita e da altri uomini. Uomini violentati nel sesso e nell’anima. Li chiamiamo clandestini. Come fossero un esercito di persone tutte uguali e non degli uomini uno per uno; soli, nati nel posto sbagliato e uniti insieme dalla paura. Uomini che scappano per non sprecare la loro unica vita a far la guerra alla miseria o a scappare da una misera guerra. Loro meritano la nostra paura.

Quando il mare lo solcano degli uomini con la camicia bianca inamidata, il nodo della cravatta ben stretto, ben profumati; srotoliamo il tappeto rosso e stiriamo il vestito delle feste. Fingiamo di non sapere che tanto profumo lo usa chi deve nascondere il tanfo della propria miseria umana. Fingiamo di non sapere che stiamo per stringere la mano a chi ci invade davvero. Abbiamo finto quando la SARAS e tutte le sue aziende sorelle hanno avvelenato la nostra terra e assassinato i suoi stessi operai. Neanche l’animale più limitato uccide chi gli procura un beneficio.

Una divisa ci da sicurezza. Così quando l’esercito decide di appropriarsi di ettari di terra nostra e usarli per esplodere ordigni illegali, abbattere isolotti, devastare beni archeologici o calpestare dune di spiagge bianche; noi pensiamo che ‘ci tocca’ per difendere la ‘sicurezza nazionale’. Fingiamo così di non vedere la frutta puzzolente e gli animali deformi; attribuiamo al caso il cancro del vicino o il bambino malformato.

Quando vediamo un uomo, un uomo come noi, con la pelle più scura che usa un altro nome per chiamare Dio, abbiamo paura. Non profuma, quell’uomo, non veste una camicia inamidata, non ci rassicura con una bella divisa. È una paura comoda, la nostra. Non vogliamo guardare negli occhi di quell’uomo perche sappiamo che sono pronti ad accendersi di speranza. Non sopportiamo la delusione che adombrerà il suo sguardo quando quella speranza gliela negheremo. Non siamo capaci di convivere con chi ci ricorda quanto inutili sono i nostri sprechi e quanto indecente è la nostra indifferenza davanti a mezzo mondo che muore di fame. Non vogliamo vedere ogni giorno chi abbiamo colonizzato e derubato fino a solo sessant’anni fa.

Preferiamo la morte e le malattie certe dei poligoni militari o degli impianti petrolchimici, al rischio possibile che un clandestino possa occupare una casa popolare, perché la sua famiglia è più numerosa di una delle nostre, quelle col pedigree. Meglio il ricatto ‘lavoro e cancro o salute e disoccupazione’ che un immigrato assunto al posto nostro.

Meglio farsi invadere da lobbisti senza scrupoli e uomini armati fino ai denti che giocano al Risiko a casa nostra, che tendere la mano a dei disgraziati con gli occhi pieni di vita.

Sarò in controtendenza ma nella mia Sardegna i clandestini invasori hanno la pelle bianca, si profumano molto e spesso sono armati.

 

Fuoco e fiamme

Dedicata a voi che date fuoco ai barboni.

Avete tutto il mio disprezzo.

Il mio disprezzo di uomo; il mio disprezzo di essere pensante; il mio disprezzo di persona civile. Il disprezzo è l’unico sentimento umano che meritate.

Se potessi vi espellerei dalla razza umana; se voi foste la maggioranza, vorrei essere espulso io.

Non dite che il mio è odio, perche non lo è. È solo pacifica, meditata, umana saggezza.

Al centro di tutto

mw_mediaarchive_image_685f5ee6678eec07314e3ddbde8dd09a_ricostruzione_3d_nuraghe_arrubiuDopo aver letto un articolo apparso su Sardegnamondo e relativo alla riflessione di Giuseppe Galasso, apparsa sul Corriere della Sera, mi sono sentito in dovere di fare alcune precisazioni.

Non sono uno storico, sono andato a memoria e potrei non essere stato impeccabile per quanto riguarda le date; se c’è qualche errore chiedo venia. 

Devo dire che il suo articolo Galassi è la stantia ripetizione di una serie di banali, offensivi ed infondati stereotipi. Tale discorso si regge sostanzialmente su due pilastri: su una pesante ignoranza in merito alla storia della Sardegna e su una malcelata presunzione di superiorità. Mentre la prima si cura con la conoscenza, per la seconda c’è poca speranza. Il fatto è che l’Italia, il suo mondo accademico, intellettuale e politico hanno sempre marginalizzato la Sardegna descritta come un mondo a se -cosa che lei di fatto riafferma- lontano dall’Italia e dal continente e dunque estranea al progresso e ai mutamenti storici della civile Europa. Un’isola sperduta che continua ad essere sempre uguale a se stessa, rimasta immune dalle vicissitudini storiche. E’ vero che lei fa riferimento all’Unità d’Italia e alla vita in comune; ma è curioso che nessuno citi mai la storia sarda precedente alla nascita del Regno d’Italia, è curioso che si ignori che la Sardegna esistesse anche prima. Vede Galassi, se usciamo dall’ottuso  e prevalente sguardo accademico -che vuole la cultura classica come metro di ogni cosa definibile come ‘civile’- scopriamo che senza le civiltà che l’hanno preceduta i greci e i romani avrebbero continuato a vivere nelle capanne. Si ignora, ad esempio, che la nostra isola ha ospitato una delle principali civiltà del mondo antico, quella Nuragica: la principale civiltà megalitica del mediterraneo, con un’importante ed enormemente progredito sistema di fortificazioni, una flotta navale, una grande conoscenza ingegneristica, una raffinata arte artigiana, la più evoluta e pregiata lavorazione dei metalli del mondo antico, ed una precisa scienza astrologica. Una popolazione che tesseva rapporti commerciali con tutte le principali civiltà mediterranee dell’epoca. Una civiltà che con la datazione dei Giganti di Monte ‘e Prama sarebbe l’inventrice della statuaria monumentale in occidente. Si ignora il progresso della Sardegna nel medioevo, quando per 6 secoli costruisce i Giudicati: monarchie ereditarie soggette al controllo di organi consultivi parlamentari e al popolo, che aveva per legge diritto di condanna a morte del sovrano se ritenuto tiranno. Giudicati che giunsero a scrivere la Carta de Logu, sistema di leggi scritte nella lingua del popolo (usata ufficialmente già 200 anni prima di quella italiana) che tutti nel regno erano tenuti a rispettare, senza distinzioni: un embrione di costituzione moderna, qualcosa a cui il grosso d’Europa arriverà solo nel alla fine del ‘700. Poi c’è stata la dominazione spagnola per 3 secoli che ha segnato usi e costumi, lingua e cucina. Infine, in un ‘700 tumultuoso per tutta l’europa arrivarono, per caso, i Savoia. Dei duchi di montagna, che parlavano francese e che francesi si considerarono fino a quando non intuirono di potersi espandere verso la penisola. Così verso l’inizio dell’ottocento i sardi iniziano a parlare una lingua sconosciuta, imposta dai piemontesi -che neanche questi sapevano parlare- e che nulla ha a che fare con la loro. Da qui inizia la nostra storia in comune. Una storia alla quale non manca uno sfruttamento delle materie prime in stile coloniale da parte della borghesia piemontese e genovese durante i primi decenni di regno savoiardo, non mancano le cacciate della nobiltà esistente per sostituirla con quella piemontese, la soppressione degli organi governativi sardi, il disboscamento dell’intera Sardegna meridionale(cosa che ne modificherà persino il clima) e l’impoverimento complessivo dei sardi che sfocia alla fine del ‘700 in una vera e propria rivoluzione con la quale viene costretto a scappare il viceré piemontese. Mi rendo conto che per l’Italia la Sardegna sia un mondo a se, ma sono convinto che pure l’Italia per i miei nonni era un misterioso concetto. Perché se è vero che l’Italia esisteva da prima di diventare Stato, è vero anche che la Sardegna con questa Italia non aveva avuto nulla a che vedere. Se le altre regioni della penisola avevano un rapporto di cultura, storia e lingua in comune -ad esempio il Rinascimento o la ricerca comune di uno standard di lingua unitario, dalla Scuola Siciliana a Dante, fino a Manzoni- la Sardegna aveva sviluppato una identità propria, come pezzo del Regno di Spagna. Fino al ‘700 alle nostre elite, nobili del prospero impero coloniale spagnolo, dovevate apparire come un insieme di piccoli regni divisi su tutto, una penisola in decadenza -come ben descriveranno un secolo dopo alcuni illustri francesi in viaggio per l’Italia- la cui unica parte progredita (il Regno delle due Sicilie) era imparentata con la corona spagnola. Vede caro Galassi, è questione di prospettiva. Il problema sta proprio qua: se non si riconosce l’alterità oggettiva della Sardegna, per storia, cultura e lingua, non la si capirà mai. Se non si considera la Sardegna con la sua diversità e non la si rispetta, questo rapporto con l’Italia continuerà a basarsi su un malinteso di fondo. Insomma è chiaro che se la Sardegna per voi ‘penisolani’ continua ad essere la periferia; diventa legittimo, che lo sguardo della Sardegna diventi sempre di più uno sguardo autonomo e rivolto all’Europa, sempre più distratto da questa Italia che si riduce ogni giorno di più a periferia.

Del resto, prima di diventare italiani, noi ci siamo sempre sentiti a nostro agio, qui nel Mediterraneo, al centro di tutto.

Questo articolo si era perso tra mille bozze, ma dopo 3 anni gli facciamo prendere aria, perche fa tristezza il pensiero che debba rimanere nel buoio della soffitta dei pensieri, o se preferite la si può chiamare volgarmente “dimenticatoio”.