L’indipendenza del sud

 

“The art stations of the Naples Metro”, Rai, 2015

Sono pochi a vedere il cambiamento epocale che sta attraversando il sud Italia. In Meridione iniziano a guardarsi con occhi diversi, con uno sguardo emancipato, non indotto. Dopo un secolo e mezzo di minorità il sud sta lentamente uscendo dal sentimento di inferiorità che lo opprimeva; dalla colpevolezza, incastonata nell’animo di ogni cittadino nato a sud di Roma, che il nord fosse ricco per meriti e il sud fosse povero perché se lo meritava.

Non è più il tempo dell’emigrato meridionale al nord, che nasconde il proprio accento per integrarsi e proteggersi da un contesto sociale discriminatorio e a volte razzista. Se oggi il nord continua ad illudersi della propria superiorità economica e culturale, come un fatto solo meritato, se continua a credere in stereotipi estremi sul sud e sui meridionali; il ‘terrone’ è invece portatore di una consapevolezza nuova e di un senso d’orgoglio all’appartenenza ad un sud che è stato minorizzato più da fuori che da dentro. Il sud non è più una terra brulla e desolata, ma un luogo nel quale, pur com mille ostacoli, si può tornare a fare impresa, con un potenziale inestimabile di turismo, agroalimentare, paesaggi incontaminati, creatività e beni culturali.

Molti giovani tornano a fare impresa, ravvivano la scena culturale di città come Napoli, Bari o Palermo e perfino Matera città delle cultura 2019. Sono molti a tornare dopo essere partiti. E’ un racconto che la TV o i giornali fanno poco, ma che vanta molta letteratura e tanti piccoli e grandi esempi.

Il racconto trito e ritrito dei media, concentrato solo sui problemi del sud, non tiene conto di primati nuovi e non è capace di cogliere un risveglio che si avverte. Si tratta di un inizio, intendiamoci, che ha bisogno di tanta energia per andare avanti. Però c’è, si sente e si vede, se si sa guardare bene. Fin qui può apparire una descrizione profetica, magari solo frutto di un desiderio di rivalsa sociale che mostra false realtà. Effettivamente è sempre affascinante immaginare la rinascita di un popolo, la sua emancipazione e il recupero della propria dignità.

Io però sono convinto che sia più di un desiderio, che ci sia qualcosa di più profondo e definitivo che si agita nelle viscere della punta dello stivale. Provo a raccontarvi come arrivo alla conclusione che il rinascimento meridionale è più che possibile, e che qualcosa sta veramente cambiando.

1) Emancipazione culturale

Il sud si è popolato di una nuova classe di intellettuali che guarda al modo, che lo conosce e che lo ha vissuto, si è affacciata nella scena culturale del sud con uno sguardo nuovo. Uno sguardo capace di vedere il potenziale del sud.

Intellettuali che criticano puntigliosamente la realtà, ma anche intellettuali che danno lustro alla grandezza della cultura terrona.

-Uno dei più influenti nella emancipazione del sud è senz’altro Pino Aprile che col suo ‘Terroni‘ ha raccontato alle masse la vera storia dell’Italia post unitaria, la grandezza del sud prima della conquista sabauda e l’abuso in pieno stile coloniale che ne è seguito; condito dai soprusi e dagli assassinii di massa, dal razzismo imperante, dalla deindustrializzazione, da un furto sistematico e un travaso di ricchezza dal sud al nord. Un racconto occultato per convenienze politiche, che va all’origine dei problemi del sud e dell’unità vera di un’Italia che ad oggi, dopo un secolo e mezzo, è unita politicamente ma di fatto spaccata in due.

-Fondamentale Roberto Saviano e la consapevolezza sul devastante sistema camorristico che ha divorato la ricchezza campana e l’anima calda di Napoli. Spesso i napoletani lo criticano per la pessima fama che, secondo loro, avrebbe dato alla città, romanzando solo il marcio partenopeo. I napoletani si arrabbiano e si sforzano sempre di dimostrare che sono gente per bene e di cuore; che Napoli sta cambiando e non è solo rifiuti e camorra: la dimostrazione che le pagine scritte da Saviano sono un atto d’amore, uno sforzo rivoluzionario, un pugno in faccia; sono la scossa di un defibrillatore che riporta alla vita. Il moto d’orgoglio di questi ultimi tempi è il risultato della descrizione cruda della realtà camorristica locale e del livello basso al quale si era arrivati; dei titoli dei giornali sulla crisi rifiuti e delle prime pagine su tutti i media del mondo.

Insieme agli intellettuali c’è la generazione Erasmus, che torna e che ha la consapevolezza che non esistono paesi in Europa così divisi. Una generazione che il pregiudizio settentrionale non ha plasmato, alla quale non è stata inculcata una castrazione identitaria; che non ha dovuto svendere le proprie origini per un salario e che ha le basi culturali e il senso critico per capire quanto della narrazione settentrionale sul sud ha senso e quanto è irrispettosa, spocchiosa o fasulla.

2) Benvenuti al sud

Benvenuti al sud‘ ha fatto tanto, restituendo un’immagine ridicola degli stereotipi ‘polentoni’ sul sud e di chi ci crede. Una descrizione super pop dell’idea, spesso frutto di ignoranza, che il nord ha del sud. Ha aperto gli occhi a tanti, al sud e pure al nord.

3) La musica

Ci sono molti cantanti che hanno fatto, e non da oggi, della meridione il centro di intere esperienze artistiche. Penso agli storici Teresa De Sio o Eugenio Bennato e allo scomparso Pino Daniele. Poi c’è lo scenario musicale salentino pop, o quello napoletano del rap: tutti artisti politicamente e socialmente impegnati e quasi sempre meridionalissimi.

4) La rinascita della Puglia e il Cinema

Ma un contributo enorme lo ha dato la Puglia. In pochi anni il Salento è diventato una delle calamite turistiche più importanti d’Italia, una meta alla moda, perfetta per i giovani. Si sono moltiplicati i film girati in Puglia, grazie ad una ottima Puglia Film Commission, che hanno portato l’attenzione su paesaggi e città che nessuno conosceva, che splendono di pietra bianca, barocco e calde luci notturne. L’agroalimentare pugliese è sempre più apprezzato e conosciuto nei mercati. Potremmo poi parlare della cura dei centri storici o dell’arrivo degli stranieri che, come accaduto negli anni ’90 in Toscana, iniziano a comprare anche masserie e trulli. Perfino la pizzica è diventata una calamita per il turismo, e -incredibile!- un attrattore per i giovani. Tutto in una regione che appare emancipata, progressista, festaiola, organizzata meglio delle sue vicine e orgogliosissima delle proprie tradizioni; ma anche curiosa del futuro e con tanta voglia di rivincita.

Presto anche la Baslicata -che cresce a ritmi pazzeschi, anche grazie al petrolio- si farà sentire, con Matera Città della Cultura 2019, ma anche con il suo agroalimentare e i suoi borghi medioevali, immersi in un verde fantastico e conservati come quelli umbri, anche se non ancora tutti così ben tenuti.

Persone, storie e personaggi che raccontano un meridione che ritrova una sua indipendenza culturale ed identitaria, capace di pregi e non solo di difetti; di insegnare oltre che imparare.

Un sud emancipato dalla subalternità al nord, che cerca una strada autonoma , i cui cittadini iniziano a rendersi conto che le decisioni governative sono influenzate da potenti lobbie e con esse la distribuzione dei soldi pubblici. Le lobbie sono al nord e con vari giochetti riescono sempre a spostare verso il nord i soldi dello Stato.

5) Politica e indipendenza

Stanno nascendo movimenti locali in opposizione ad una politica cieca e a partiti nazionali che hanno sempre e solo ‘usato’ la questione meridionale. Può essere l’inizio della rinascita ma anche un grande rischio per il nord. Una situazione in stile Belgio, dove i partiti indipendentisti territoriali hanno visto un rovesciamento della situazione economica: i fiamminghi sono di colpo diventati più ricchi dei francofoni e il Belgio è governato da coalizioni caleidoscopiche (mille partitini regionali) che litigano di continuo, fino a sfiorare la secessione. Se in Italia qualcuno non capisce in tempo che è necessario ridare dignità al sud, anche a discapito di perdere qualche consenso al nord, potremmo trovarci davanti ad uno scenario simile, anche solo tra dieci anni.

Forse sono parole al vento, speranze vane di una rinascita che nessuno di noi vedrà. Forse sono segnali simili alla rinascita napoletana che Gianni Minà provava a raccontare con Troisi a Blitz nell’82, e che verrà stroncata dal disincanto, dalla fatica del cambiamento, dal fatalismo più cupo. Le rivoluzioni che cambiano ogni cosa arrivano dalle ceneri di crisi pesanti, dalla disperazione dell’immobilismo, dalla sofferenza del vivere. Il sud oggi ha voglia di sgomitare e di prendersi la rivincita, che ci riesca o meno dipende dalla sua voglia di lottare. Io sono convinto che, se vuole, può.

 

Nb. Non parlo di Sardegna quando parlo di meridione perchè la Sardegna non è meridione. Non lo è per storia o per identità culturale: farlo sarebbe un grave errore. Alla mia isola dedico un capitolo a parte.

*Per anni hanno raccontato che il nord manteneva il sud, che la cultura assistenziale aveva regalato alla corruzione e all’incapacità meridionale milioni di euro sudati a nord. Non si è raccontato che i vari piani di detassazione per le imprese che investivano al sud si sono trasformati in regali dello stato alle industri del nord che, come locuste, fingevano di andare al sud per fare sviluppo e una volta intascati i finanziamenti statali chiudevano baracca e burattini e se ne tornavano ai piedi delle alpi…con le tasche piene. Non si racconta che i fondi europei per le aree svantaggiate venivano prima assegnati alle regioni del sud e poi con cavilli vari ritornavano quasi tutti a finanziare infrastrutture e servizi al nord. Ma se tutti questi fatti non eliminano il reale sperpero, che comunque ha fatto il sud, di denaro nei meandri della corruzione, delle clientele e nelle mani di mafie varie; ci sono dati inconfutabili che raccontano le colpe dello stato e del nord.

Basta pensare all’abisso infrastrutturale tra nord e sud, che si riproduce in ogni investimnto statale. Gardiamo alle ferrovie: è possibile che l’alta velocità finisca a Napoli? Il principio è che al nord c’è il polmone industriale d’Italia e dunque maggiore necessità di investimenti e modernizzazione infrastrutturale. Vero, ma come si fa a pensare che il su possa svilupparsi competendo con ferrovie e strade ridicole, traffici portuali danneggiati dall’assenza di una politica che privilegi i porti del sud quali hub in concorrenza con quelli del nord Europa. Se non diamo parità di infrastrutture la gara è truccata.

Potremmo continuare a lungo, parlando di scuola, costo dell’energia e sicurezza. Ma non serve. Il fatto è semplice: il divario esiste ed è responsabilità dei meridionali e delle proprie classi dirigenti, per quanto riguarda i servizi locali, ma è grossa colpa dello Stato e quindi anche del nord, l’incapacità (forse sarebbe meglio dire non volontà) di fornire gli stessi servizi statali e con la stessa qualità. La domanda è: perché lo Stato fornisce gli stessi servizi in tutta Italia ma al sud sono pessimi e al nord di molto migliori?Al sud se ne sono accorti.

 

Storia sarda: narrazione tricolore

Il 28 Aprile del 1794 il popolo sardo caccia, dopo una rivoluzione popolare, il viceré sabaudo. Esattamente quanto accade a Parigi pochi anni prima e in molte altre città europee prima e dopo. Le classi dirigenti borghesi emergenti e i nobili marginalizzati assecondano il malcontento popolare provocando rivolte e rivoluzioni. Come nella rivoluzione francese anche in quella sarda le classi dirigenti sono le uniche in condizione di accedere alla conoscenza e di sviluppare coscienza di classe e di se. La coalizione tra borghesi e popolo cambia la storia dell’occidente. Inizia una lenta riappropriazione del proprio ruolo nel modo, dei limiti e del valore della propria condizione; che farà del ‘popolo bue’ un soggetto attivo e non più passivo della storia. Dopo secoli di immobilismo rinascono valori di eguaglianza sopiti dal tempo della Roma repubblicana. Le rivoluzioni del ‘700 fanno nascere una nuova coscienza e una nuova cultura nel popolo. La rivoluzione sarda è l’inizio di un lungo cammino di svezzamento del popolo sardo che per alcuni si conclude con il raggiungimento dell’autonomia e che altri credono debba completarsi con l’indipendenza. Quella sarda non nacque come rivoluzione per l’indipendenza, ma come reazione all’oppressione sabauda, all’esclusione e marginalizzazione dei sardi nelle questioni del regno. I sardi in rivolta volevano che le cariche pubbliche in Sardegna fossero assegnate anche ai sardi; che gli organi consultivi sardi fossero convocati dal Re e che le decisioni tenessero conto dei problemi e degli interessi anche sardi nelle dinamiche del regno. I Savoia non si dimostrarono ne comprensivi ne disponibili al dialogo. Tornarono in Sardegna più feroci di prima, attuando una sanguinaria oppressione in tutta l’isola. Un antipasto della conquista del meridione e della guerra civile che ne seguì; delle morti e dello sfruttamento coloniale che Pino Aprile ben descrive nel suo ‘Terroni’. Come a descriverlo saranno le Parole di Garibaldi o di Gramsci, a raccontare un’idea di potere basato sulla sottomissione e sul terrore. Uno stesso destino che vide i sardi e la loro terra oggetto di uno sfruttamento infinito: dal legname ai minerali passando per il grano. I Savoia divennero Re grazie alla corona di Sardegna, ai favori ad altre potenze europee, felici di indebolire l’impero spagnolo, e all’abilità diplomatica di cui furono maestri poco tempo dopo con l’annessione del sud. Diplomazie e accordi sottobanco coperti dalla retorica patriottica, dalla storiella sui Mille e dagli eroi risorgimentali.

La Sardegna fu per questa dinastia di razzisti -spesso ignoranti-nobili francofoni, il banco di prova, la cavia per l’esperimento, della conquista dell’intera penisola. Lo fu per l’idea di potere, di monarchia e di Stato; basata sull’idea di un popolo sottomesso e spaventato dal potere. La prevaricazione al posto del rispetto. Un potere rispettato per la propria capacità di interpretare linterese collettivo della nazione e locale dei territori non era nelle corde dei Savoia, ne in quelle dei loro luogotenenti.

Nel Ragno dei Savoia era la sottomissione l’unica alternativa possibile.

Il razzismo trasuda in molte descrizioni fatte dagli inviati del Re nel momento della cessione del Regno a seguito della Crisi spagnola legata alla successione sul trono del regno iberico. La descrizone di un popolo sfaticato, da correggere e civilizzare: con lo stesso approccio che si adottava per le colonie.

Istatutos Tataresos - Statuti Sassaresi

Istatutos Tataresos – Statuti Sassaresi

La storiografia ufficiale italiana ha, invece, un approccio molto diverso.

Questo articolo che vi propongo è perfetto per raccontare la ‘narrazione tricolore‘.

http://www.ereticamente.net/2014/05/la-sardegna-dalla-cessione-ai-savoia.html

Usiamo questo articolo, ma potremmo usare libri interi, per analizzare punto per punto di questo racconto patriottico.

Generalmente la narrazione si basa su alcuni punti chiave:

1) L’esportazione della civiltà

La storiografia ufficiale racconta la Sardegna legata all’identità culturale italiana, in modo stretto, naturale e privilegiato già dagli inizi del medioevo. Racconta la parentesi spagnola come un momento di decadenza e oppressione, sanato dall’arrivo di una dinastia italiana (che però parlava il francese) a ristabilire prosperità.

Con una descrizione inattendibile, come quella dell’articolo, non per l’assenza di fonti (ci mancherebbe) ma per la loro parzialità.

Lo si vede nella descrizione fatta della rivoluzione sarda, inattendibile peche i riferimenti su cui si costruisce questa semplificazione parziale, sono prevalentemente scritti dai piemontesi o dai loro alleati. In secondo luogo, perche non si spiegherebbe la rivoluzione sarda del 1794, se non anche con un malcontento popolare. E’ difficile credere che un popolo intero decida di rischiare la vita in una rivoluzione, solo perche un gruppo di nobili e borghesi locali chiede che tra gli impiegati pubblici ce ne sia anche qualcuno sardo. Difficile che lo faccia nel bel mezzo di quella che l’articolo descrive come una coraggiosa riforma verso il progresso. In un contesto economico e sociale così favorevole, è difficile immaginare un popolo tanto indignato da spingersi alla rivoluzione.

In questo genere di ricostruzioni vengono poi, completamente ignorate le feroci repressioni che seguirono alla rivoluzione, da parte dello stesso Bogino -descritto invece come un illuminato governante settecentesco- che sparge, invece, terrore in tutta l’isola. L’assegnazione della terra alla sfruttamento da parte di liguri e piemontesi e poi dei toscani caratterizzerà il programma di riforma boginiana. Una sostanziale assegnazione di interi pezzi dell’isola a interessi privati che certo non facevano prosperare I sardi.

E’ un fatto irresistibile per grossa parte della storiografia italiana fare propaganda pro-unitaria. Non si perde occasione per descrivere la Sardegna come naturale parte integrante del territorio nazionale italiano, per cultura e per lingua. Non si perde occasione per ignorare repressioni, confische, espulsioni, scritti e descrizioni razziste dei luogotenenti della dinastia sabauda.

La descrizione dell’occupazione delle isole sarde con l’impianto di coloni genovesi a Carloforte o di strutture industriali di proprietà piemontese e genovese come di riforme illuministe fa molto sorridere. Mi chiedo come si possa considerare uno stato -in questo caso il Regno di Sardegna- che viene consegnato come bottino di guerra ad una dinastia – I Savoia- che nomina un viceré inviato dal proprio Stato a governare un territorio straniero. Vicerè che descrive il popolo che è chiamato a governare come un luogo incivile e barbaro, con un popolo disprezzabile e un clima ostile. Un governo che innesta una serie di colonie con popolazioni provenienti dal proprio territorio, che da concessioni alla speculazione di signori provenienti dalla madrepatria che innestano poli minerari, disboscano metà del territorio e costituiscono grandi società agricole, di cui sono proprietari latifondisti della medesima madrepatria con al servizio contadini locali.

Come si può descrivere una situazione di questo tipo? Per gli storici patriottici si tratta di illuminate riforme. Per me, ignorante sardo, somiglia molto a quell’esportazione di civiltà’ che gli stati e i sovrani d’Europa vollero nel Nuovo Mondo, nell’Africa e pochi anni dopo in tutti I grandi Imperi Coloniali. Insomma a me sembra colonialismo. Ma forse io sono in malafede e mi sbaglio. Forse non capisco la portata innovatrice delle riforme ‘illuministe’ dei Savoia. Forse io, come il popolo sardo rivoluzionario che seguiva Juanne Maria Angioy, non capisco che quello che veniva portato dai Savoia era progresso; che I sardi erano sfaticati e stupidi e le classi dirigenti isolane non offrivano un solo nome da mettere a capo dell’isola, a capo di una miniera o di un impresa di legname. Forse hanno ragione loro: siamo geneticamente incapaci di fare impresa o di riforme illuminate; dobbiamo ringraziarli per essere venuti ad insegnarci come si diventa civili, come si diventa moderni. Grazie a loro siamo entrati nella rivoluzione industriale.

Però continua a sfuggirmi un passaggio: se dovevano insegnarci a diventare civili -loro progrediti amministratori nordici- perche dopo quasi tre secoli di ‘civilizzazione’ loro sono diventati ricchi e colti, mentre il livello di abbandono scolastico dei sardi è il primo in Italia, le aziende minerarie, metallurgiche ed energetiche sono ancora in mano di non sardi? Ah che sciocco! Deve essere che siamo proprio cocciuti noi sardi, non ci vuole proprio entrare in testa questa civiltà! Fortuna che loro non ci lasciano soli, non ci abbandonano. Chissà, magari tra altri tre secoli saremo diventati abbastanza civili da non avere più bisogno del loro generoso aiuto…augh!

2) Che cattivi questi spagnoli!

I libri di storia ad uso scolastico fingono di ignorare tutta la documentazione storica relativa al periodo spagnolo in Sardegna (peraltro studiato pochissimo), descritto con pregiudizio come un regime di oppressione e di occupazione, come se la presenza spagnola fosse illegittima e quella sabauda liberatrice. Stesso trattamento che viene riservato agli insulti razzisti e all’approccio coloniale dei piemontesi al sud Italia dopo l’invasione del Regno delle due Sicilie.

E’ probabile che la Spagna fosse incapace di amministrare in modo moderno il territorio sardo, come molte altre parti del suo regno. E’ probabile che la Sardegna del ‘700 fosse profondamente arretrata. E’ possibile che questo si legasse con l’inizio della decadenza della Spagna, primo Stato moderno d’Europa, primo e ricco Impero coloniale che entra in crisi sul finire del 1600. Ma se la descrizione fatta della Sardegna spagnola, è basata sugli stessi criteri con i quali si descriveva il Regno delle due Sicilie come uno stato satellite della Spagna (falso) arretrato e corrotto, beh il diritto di dubitare di tali ricostruzioni c’è tutto.

Sarebbe interessante iniziare delle serie ricerche negli archivi spagnoli per capire quanto di questa descrizione sia vero e quanto utile propaganda politica ad uso e consumo degli interessi sabaudi e per legittimare le mire della borghesia emergente del piemonte pronta ad espandere il proprio dominio politico ed economico nei nuovi territori del regno.

Forse gli spagnoli erano degli sfruttatori, ma è certo che nella cultura iberica non c’è mai stata un’idea esotica delle isole, una considerazione minore. Tipica idea che invece pervade la cultura italiana, che considera le isole come terre emerse isolate e lontane. Le attuali isole spagnole sono tutt’oggi molto più ricche di quelle italiane sia con un confronto diretto tre le due, che con una comparazione interna alle regioni del territorio nazionale di riferimento. Oltre a godere di privilegi legati alla continuità territoriale e all’autonomia di governo.

Poi ho molti dubbi sulla condizione economica pre-sabauda. Si usa l’aumento della popolazione per dimostrare il miglioramento dell’economia del Regno. Vorrei sapere se l’aumento della popolazione nell’era Savoia sia derivato dall’aumento delle nascite e sia connesso alla condizione economica. Perche come unico criterio di valutazione mi pare un poco debole: perche potrebbe essere conseguenza della fondazione di nuove città con genti genovesi nelle isole minori dell’Iglesiente e poi per l’arrivo di soldati e funzionari sabaudi a sostituire quelli sardi. Oltre che dall’assenza di pestilenze, dall’arrivo delle norme igieniche o da altre ragioni.

Vorrei capire se c’è una connessione tra questa crescita demografica e le condizioni di vita del popolo. Perché questo criterio mi ricorda molto la misurazione della ricchezza del Regno delle due Sicilie basata sul confronto dei chilometri di ferrovia in comparazione con quelli del Piemonte (ignorando le flotte navali del regno, la sua caratteristica geografica, la ricchezza nelle casse del regno, la condizione delle zone rurali, etc).

Poi penso agli abiti tradizionali sardi -con evidenti influenze spagnole e dunque di quel periodo- fastosi, ricchi di oro, tanto da essere opulenti. I dolci sardi più noti hanno origine o legame con quella cultura, dolci ricchi di zuccheri, uova, mandorle, miele: raffinati nella decorazione e diffusi su tutto il territorio. Per non parlare della tradizione orafa della filigrana, della lavorazione dei tessuti e dei tappeti. L’artigianato e la lavorazione delle porcellane non è da meno.

3) La Sardegna è italianissima!

Perplesso mi lascia, invece, l’affermazione secondo cui statuti delle città sarde scritti in lingua italiana sulla base del diritto municipale italico, nell’ampia diffusione della lingua e della cultura italiana nell’Isola a fianco dell’autoctona lingua sarda”. Forse parliamo di accadimenti diversi, ma gli Statuti Sassaresi o la Carta de Logu, furono scritti in lingua sarda. Che poi nell’estremo nord della Sardegna l’influenza linguistica italofona abbia avuto esiti linguistici di ceppo toscano, simili a quelli corsi, è noto tanto che ripeterlo è perfino banale.

Affermare che i Giudicati siano stati conseguenza dell’influenza pisana o genovese, significa, poi, costruire un falso storico.

Curiosa è l’idea che la Sardegna abbia avuto un rapporto privilegiato con l’Italia medioevale e che, grazie a questa, abbia importato e sviluppato un sistema originale, alternativo a quello feudale. Sorprendente dire che un sistema – quello giudicale sardo- nato quasi due secoli prima abbia ‘importato’ un’idea di autonomia locale che il resto dei Comuni avrebbe vissuto un secolo dopo.

E’ curioso affermare che questo costituisca un segno di legame privilegiato con l’Italia, insieme alla costruzione di città fortificate con influenza pisano-genovese; dato che, invece, le dimore giudicali avevano caratteristiche simile a quelle di tante altre sparse per l’Europa nel medioevo. Come si trattasse dell’inizio della costrizione di una identità culturale e nazionale comune. Altra cosa è affermare l’alleanza con territori prossimi, famiglie di prestigiosa nobiltà o parlare di influenze reciproche, di forti scambi commerciali, artistici e culturali. Scambi simili a quelli che la Toscana rinascimentale avrà con le fiandre, da cui importerà, probabilmente, il sistema dei comuni.

Tanto più che I nobili sardi si legavano a famiglie nobili dei vari casati europei, come la casata arborense della mitica Eleonora d’Arborea, lei stessa nata in Catalogna.

Non è strano che si tenti di dimostrare una presunta italianità propria della cultura sarda. Non è nuovo che si voglia inventare un rapporto privilegiato, un qualche legame fraterno con l’italiano, coi pisani o con altri.

Il principio è dimostrare che siamo italianissimi, che siamo cresciuti ‘fratelli d’Italia’ e che tutte le differenze che qualcuno paventa sono simili a quelle che troviamo nel resto delle Regioni italiane e che siccome noi siamo isolani, dunque più provinciali dei provinciali, vogliamo trovare grandi differenze dove non ci sono. Quindi la Storia della Sardegna non è così diversa da quella della Basilicata, del Lazio o della Toscana, siamo tutti italiani in fondo.

Il problema di questa teoria si scontra con la realtà.

Dire che l’italiano entra progressivamente nella tradizione letteraria sarda, in modo naturale, nel medioevo è falso. E’ giusto dire che l’italiano del Rinascimento – o meglio il toscano- entra nell’uso di molte parti d’europa, legato alla musica e all’arte: esattamente come oggi. Ma con questo non diciamo che tutta l’Europa parla italiano.

Qualcuno scrive perfino libri sul ‘Rinascimento in Sardegna’. Legittimo e perfino interessante. Ma purtroppo per noi, la nostra bella isola il rinascimento non l’ha mai ospitato. Se non, come l’hanno ospitato la Spagna, la Francia o qualche altro paese prossimo al territorio italiano. In tutta l’Europa I religiosi importavano maestranze italiane per adornare luoghi sacri. Perfino in Inghilterra arrivarono pittori fiorentini, ma questo non ci fa parlare del ‘Rinascimento in Inghilterra’.

E’ ovvio che la Sardegna abbia conosciuto qualche maestranza rinascimentale in più rispetto alla corte inglese, anche solo per questioni di vicinanza geografica. Paventare però che l rinascimento – momento centrale della costruzione dell’identità culturale italiana e del sentimento risorgimentale di popolo- sia arrivato in sardegna come a Firenze, Bologna, Mantova, Roma o Napoli, è ridicolo.

Come è ridicolo affermare che la Sardegna abbia come riferimento linguistico colto l’Italiano storicamente. Sarebbe come dire che il riferimento storico della Corsica è il francese!

La Sardegna è una cultura a parte, un luogo che ospita una identità culturale complessa, che non può essere banalizzata e piegata a volgari opere di propaganda nazionalista. La Sardegna ha la sua peculiare e unica identità culturale, storica e linguistica. Non riconoscere questa diversità di fatto è un atto volontariamente violento di cancellazione della storia e delle radici di un popolo.

La paura immotivata dello Stato e delle elite culturali italiane che la Sardegna possa scegliere di indipendizzarsi se messa nelle condizioni di aver consapevolezza della propria specialità rispetto al resto d’Italia, è ottocentesca, ingiusta e perfino manifestazione della ignoranza di ciò che i sardi si sentono di essere oggi.

Questo approccio che vuole l’Italia ignorante sulla vicissitudini pre e post unitarie, sulle peculiarità e sulla plurinazionalità del su territorio (lo sono di fatto quasi tutti i grandi Stati europei) opprime l’idea di se che un popolo ha. Rende incapace la Sardegna di avere coscienza di se, di riconoscere l’indipendenza e l’originalità di momenti alti della civiltà europea come la Civiltà Nuragica o il sistema giudicale e la Carta de Logu. Impadisce l’appropriazione di momenti di indimpendenza culturale rispetto all’italia. Rende zoppa la cultura sarda, la prosciuga di fondamentali pezzi del puzzle; senza consentirle di comprendere il quadro storico nel suo complesso.

Fingere che il sardo sia una dei tanti dialetti italiani riduce le capacità di lettura del territorio, delle tradizioni locali, dei nomi dei luoghi, della letteratura e recide il legame tra genrazioni.

Appiattire la Sardegna ad una quasi storicamente aliena cultura italiana, significa ridurre spazi per l’economia locale. Significa non dare gli strumenti per la promozione seria del territorio attraverso la sua cultura; sinifica demotivare il suo popolo convincendolo – a volte senza neppure volerlo- che non è capace di nulla se non con l’aiuto di una balia.

Costruire il mito della italianità della Sardegna è un errore per i sardi ma lo è anche per l’Italia.

Scritto da chi pensa che si possa vivere sotto lo stesso tetto, ma con un rapporto paritario, con rispetto reciproco di identità, interessi e diritti.