L’Autonomia non è in vendita.

Sono anni che grandi firme del giornalismo italiano parlano di Autonomia. Descrivono le regioni autonome come un anacronistico privilegio; dicono che le regioni autonome ricevono più denaro in quanto tali e ne propongono l’abolizione.

 C’è chi vuole l’Autonomia

Lombardia e Veneto hanno votato per dire la loro sul referendum “ per l’autonomia”.

I veneti hanno detto si con percentuali bulgare e una partecipazione di 60 cittadini su 100; in Lombardia una fallimento totale sia per i partecipanti che per il cattivo funzionamento del sistema elettronic di voto.Vedremo cosa succederà nei mesi a venire: la strada sarà lunga e tortuosa.

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Ma perche Maroni e Zaia vogliono essere autonomi?

Per due ragioni:

  1. Gestione dei servizi diretta da parte della Regione
  2. Per tenere in regione più denaro

La Repubblica Italiana, come quasi tutti i grandi Stati europei, riconosce ad alcuni suo territori l’autonomia. “Riconosce”, non “concede”: è una differenza che i nostri illustri intellettuali non conoscono, anche se io -illuso che si tratti di persone dalla fine intelligenza- credo che facciano finta di non conoscere.

I costituenti riconobbero l’esistenza di minoranze etniche storiche nel territorio della Repubblica.

Si tratta di minoranze etniche con:
1) Una storia propria, scarsamente legata a quella nazionale italiana.
2) Minoranze linguistiche, con una o più lingue proprie.
3) Cultura e tradizioni proprie.
4) Posizione geografica speciale.

Questi criteri caratterizzano tutte le regioni a Statuto Autonomo eccetto la Sicilia che ha sempre avuto una autonomia molto ampia, sia durante il Regno delle Due Sicilie, che durante il Regno D’Italia.

Gli straordinari intellettuali italiani dicono da anni che le regioni autonome non hanno senso perche tanto l’Europa ora non ha frontiere, i collegamenti aerei e navali sono molto più efficienti e quindi non ha più senso “concedere” l’autonomia a questi territori.

A volte quando penso agli editorialisti di punta dei quaotidiani italiani penso che occupano lo stasso stazione nel giornale di Pasolini. Mi chiedo come facciano a non provare tremenda vergogna?

è ovvio che l’autonomia non venne riconosciuta solo sulla base dei confini, ne seguendo il solo criterio dell’insularità, altrimenti regioni di confine come Veneto, Lombardia, Liguria e Piemonte o isole come l’Arcipelago Toscano, le Eolie, le Tremiti o le Pelagie  avrebbero Statuto autonomo. Le Regioni Autonome rispondo a tutti i criteri elencati e la questione geografica è forse una delle meno rilevanti. Lo Stato riconosce l’autonomia a dei territori in quanto ammette che esistano delle minoranze storiche, linguistiche e culturali che non è in grado di tutelare.

Quando un Stato legifera lo fa in funzione della maggioranza dei suoi abitanti. Quando amministra la istruzione e beni culturali lo fa dedicando la propria attenzione alla lingua alla cultura e alla storia maggioritarie. Con l’autonomia gli stati europei ammettono di non essere in grado di tutelare degli interessi minoritari e dunque legittimano l’esistenza di autonomie che hanno esattamente questa funzione. Le autonomie non sono dei privilegi concessi a questa o a quella comunità ma una necessaria difesa di minoranze che verrebbero altrimenti schiacciate dalla cultura prevalente.

I finanziamenti delle regioni autonome vengono descritti dagli articoli degli intellettuali di cui sopra, come delle sacche di spreco e privilegio. Questi dati si basano sempre su un confronto fra regioni autonome e regioni ordinarie. Si dice che le prime spendano molti più soldi per abitante e sprechino il denaro pubblico in corruzione o cose superficiali. Non di rado si critica la spesa delle autonomie in tutela delle proprie lingue storiche o nella spesa per studi storici commissionati e legati al territorio.

Questi paragoni sono quasi sempre una cialtronata.

1)Le regioni autonome hanno una gestione della spesa e in alcuni casi delle istituzioni completamente diverse da quelle delle altre regioni.
2) Ogni regione autonoma ha una sua organizzazione e fa dei patti puntuali con lo Stato centrale: questi patti cambiano da una regione all’altra.
3) Alcune regioni autonome hanno la riscossione diretta delle tasse, altre no; alcune gestiscono i trasporti pubblici in modo quasi indipendente, altre dipendono dallo Stato.
4) Le Regioni Autonome pagano e gestiscono direttamente dei servizi che in altre regioni gestisce e paga direttamente lo Stato.

Queste variabili non permettono di mettere le regioni speciali tutte insieme come si fa per quelle ordinarie, perché ognuna è diversa.
Il fatto che si dica che le Regioni autonome son più ricche di quelle ordinarie dipende da caso a caso. Ma certamente non si può fare finta di non sapere che è ovvio che una regione speciale possa spendere più denaro di una a statuto normale, perché deve gestire e pagare dei servizi di cui nelle regioni ordinarie gestisce e paga lo Stato.
Questo non significa che le regioni autonome siano delle sante e gestiscano il denaro fantasticamente e neanche che in alcuni casi ci siano dei privilegi.
Ma se metti nella stessa busta arance e cipolle il fruttivendolo non te le fa pagare allo stesso prezzo.

Ad esempio…la Sardegna

In Sardegna usiamo delle scuole gli stessi libri di storia che si usano in Lazio o in Piemonte. Su quei tomi con centinaia di pagine la storia della Sardegna compare tre volte. Una paginetta in cui si accenna di una misteriosa civiltà chiamata “nuragica” che costruiva torri con grandi pietre, punto. La seconda è normalmente una scheda di quelle di approfondimento dove si accenna alla Carta de Logu (Una sorta di antica costituzione in uso in Sardegna del Medioevo, di grande modernità e importanza) e ricompare miracolosamente alla fine del seicento dopo la guerra di successione spagnola, quando i Savoia si mettono in testa la corona del Regno di Sardegna. Fine. La cosa più divertente, però, sono le mappe che per fantasia fanno concorrenza ai migliori racconti fantasy. Il periodo medioevale è quello più creativo e porta la Sardegna ad essere annessa una volta a Pisa, un.altra a Genova, a volte allagarono, qualche altra sotto il papato: una specie di giolly!
I sardi crescono senza sapere nulla della loro storia e spesso con un racconto errato. Un frase che tutti vi diranno qui è che “in Sardegna ci sono passati tutti”. Una cosa non vera: non più che in altre parti del mediterraneo, almeno i sardi non sanno chi sono.
Questo perché la storia che si trova sui libri di scuola italiani si concentra sul racconto della storia nazionale italiana, con uno sguardo necessario a quanto accadeva in contemporanea nel resto del mondo. Un racconto in cui la Sardegna compare solo quando diventa dominata dai Savoia o quando le sue vicende viaggiano insieme a quelle di Pisa. La prima grande civiltà del Mediterraneo occidentale, quella nuragica, che ha per prima scolpito statue in occidente (prima dei greci), merita una paragrafo. 3 secoli di Giudicati scompaiono nel nulla e quasi 4 secoli di storia in comune con aragonesi e spagnoli si riducono in un tempo vago definito com “lungo medioevo”, concluso amorevolmente dai Savoia al loro arrivo.
La Sardegna si può riconoscere nell’impero romano e nel periodo sabaudo. Si può parlare di una relazione culturale con Genova e Pisa: altalenante fino al 1260, perché dipendente dalle scelte politiche di alleanza del giudice di turno, che una volta guardava a Pisa, l’altra a Genova, altre agli aragonesi, altre ancora sii metteva sotto l’ala del papato; nella seconda metà del 200 Pisa conquista la maggior parte del territorio e lo governa per circa 70 anni, fino all’arrivo degli aragonesi. Per il resto, la storia sarda sta fuori da quella italiana: fuori dal medioevo dei comuni, fuori dal rinascimento, fuori dagli esperimenti letterari della scuola siciliana e di Dante; fuori dal risorgimento. In Sardegna le chiese si costruiscono come in Spagna, la struttura sociale e l’economia rispondono a quel criteri e la lingua ufficiale, dopo il sardo in epoca giudicale, è il catalano, prima e lo spagnolo poi.

Lautonomia serve a tutelare questa specialità culturale.

Nelle scuole sarde si dovrebbe insegnare quella parte di storia che sembra non esista. Lo Stato non sa, non può o non vuole occuparsene. L’autonomia serve a questo. Serve, ad esempio, a considerare l’epoca nuragica come un periodo storico fondamentale per la cultura sarda, anche se non lo e. per quella italiana. Avere libertà di spesa in ambito culturale dovrebbe servire per decidere di destinare delle risorse in modo prioritario alla salvaguardia i questi periodi storici e non solo a quelli che interessano il periodo romano o la breve parentesi pisana, come invece accade. Finanziamenti che al Ministero potrebbero apparire di poca importanza o non prioritari, sono importanti e prioritari per una minoranza etnica sarda, tirolese, francofona o slava.

Autonomia abusiva.

Chi vi scrive non è contro l’autonomia, anzi la difende. Ma l’autonomia ha un valore che supera questioni pratiche o di denaro, ha a che fare coi diritti umani e con il rispetto della dignità dei popoli.
Ciò che stanno facendo Lobardia e Veneto è ingiusto sia per forma che per contenuto.

1) La forma è sbagliata perché si stanno spendendo tanti soldi pubblici per chiedere ai cittadini una cosa che basterebbe presentare in modo chiaro nei programmi elettorali dei partiti a delle normali elezioni regionali. Vinte le elezioni si avrebbe già il mandato dei propri elettori in questo senso. La Costituzione consente alle regioni di contrattare con lo Stato maggiori spazi di autonomia, basta chiedere un tavolo al Governo sulla base del mandato avuto e poi, allora si, far votare l’accordo raggiunto con lo Stato in un referendum.

2) Una cosa è l’autonomia, un’altra cosa è volersi tenere i soldi in tasca. Non vedo alcun motivo per cui alla Lombardia si dovrebbe riconoscere l’autonomia: non èuna minoranza linguistica, anzi ha dato un contributo definitivo con Manzoni, padre dell.italiano moderno. Non è una minoranza storica: ha le sue peculiarità ma ha partecipato pienamente alla costruzione di na cultura italiana, è perfino il siblolo dello stile, della moda e del design italiano. Infatti la propaganda autonomista in Lombardia ne fa una questione di efficienza e di denaro (una cosa mooolto lombarda! 😉 ). Si posso concepire che la Lombardia contratti con lo stato più autonomia nella gestione di alcuni servizi perché ha dimostrato efficienza di gestione, non è possibile che se ne faccia una questione di denaro. Non si può ammettere che una regione ottenga l’autonomia sulla base della ricchezza che produce. Non si può comprare l’autonomia. Poi c’è un questioncina che i leghisti si guardano bene dal ricordare. La Lombardia è molto ricca, lo sappiamo; lo è perché i lombardi sono gente stacanovista che da molto valore al lavoro. Mi piacerebbe vedere un po’ di studi sulle ore di lavoro, sulla produttività a parità di lavoro, studi che non mettano cipolle e arance nello stesso sacchetto. Ma ammettiamoche si tratti di un popolo dedito al lavoro più degli altri e che la ricchezza dei lombardi derivi dalle qualità che hanno. Diciamo che la maggior parte di queste ricchezze deriva dallo stile di vita lombardo; ma non tutto. Il fatto che Milano ospiti la Borsa e che sia stata scelta e gestita come capitale finanziaria d’Italia conta e pure molto. Quasi tutte le aziende internazionali e la maggior parte di quelle italiane hanno scelto Milano per impiantare la loro sede sociale. Non l’hanno fatto per il bel clima ma perché Milano è la capitale finanziaria d’Italia. Quanto indotto arriva a Milano e alla Lombardia dalla presenza di queste imprese? Milioni di euro e tantissimi posti di lavoro si muovono a Milano solo perché è la capitale finanziaria d’Italia. Migliaia di uffici, elettricisti, costruttori, imprese di pulizie, idraulici, segretarie/i, avvocati e notai, ristoranti, bar, botiques e mercato immobiliare vivono grazie alla presenza di queste strutture. Bisognerà pure che i lombardi riconosca questo come un privilegio, o no?

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Spostiamo la Borsa a Napoli.

Io farei una prova, direi alla Lobardia che le si da la più ampia autonomia possibile ma che la Borsa deve essere trasferita a Napoli, per aiutare l’economia partenopea a risollevarsi. Lo Stato investirà sulla città campana con una tassa dimezzata alle aziende che decidano di spostare la loro sede fiscale a Napoli. Vista la nuova funzione della città meridionale sarà necessario fare dei seri investimenti nei trasporti pubblici, sia aerei che ferroviari: sarebbe una spesa di interesse strategico nazionale.
Secondo voi come reagirebbero?

La mia è una provocazione, è chiaro, ma serva a spiegare il mio punto di vista. Io non sono contrario all’autonomia, anzi, credo che abbia un grande valore. Ma non si può riconoscere l’autonomia in proporzione al PIL di un regione, specialmente quando lo si fa senza riconoscere tutti gli elementi che portano quella regione ad essere tanto ricca. Si dice poi, che la Lombardia versa allo stato molto denaro in proporzione a quanto ne riceve, ma si finge di non sapere che le tasse non le pagano le regioni ma le persone. Sono le persone ricche che pagano più tasse di quelle povere: in Lombardia ci sono molti ricchi e dunque il gettito fiscale che lo Stato ha dalla Lombardia è superiore a quello di alte zone d’Italia. Ma se accettassimo il criterio che i soldi che la ricchezza deve rimanere dove viene prodotta stiamo cancellando un principio di eguaglianza fondamentale e creiamo una società elitaria. Vedremo ceni quartieri ricchi pretendono che il comune utilizzi per loro maggiori risorse, trascurando quelli poveri. Vedremo che le scuole nei quartieri benestanti saranno meglio finanziate di quelle popolari. Costruiamo una società ottocentesca, senza i più elementari diritti, senza la più basilare redistribuzione della ricchezza. Per non parlare del fatto che aziende che hanno il grosso della loro produzione in altre regioni arricchiscono la Lombardia con le loro sedi di rappresentanza e le tasse che pagano per le loro sedi fiscali, invece che dove producono.

Vile denaro

Il problema non è di autonomia ma di fiscalità e si risolve con un patto serio per la crescita del sud che sia nell’interesse del meridione e nn funzionale a un politica clientelare o a qualche regalino da fare alle aziende del nord che fingono di investire al sud, come già accaduto molte volte. Un accordo di buon senso, un patto per l’interesse dell’Italia che sfugga da egoismi o ragionamenti di pancia.

Tutto il resto sono chiacchiere cialtrone. Le chiacchiere che governano il dibattito pubblico e i palazzi del potere di una Repubblica dove tutto si vende e si compra: la Repubblica delle Banane.

Catania e le Eolie, per chi è capace di guardare

Non c’è nulla di superficiale al sud. Nulla che sia visibile al primo sguardo. Per questo il sud non è per tutti; il sud è per chi è capace di guardare.

Catania

Catania è un gigante lento, stanco, malinconico e assonnato. Un mastodonte che ha perduto la fiducia nel prossimo e la voglia di sperare nel futuro. È una città che potrebbe essere di una bellezza sublime ma, escluse due o tre strade e le tre piazze del centro, è sottomessa a delle menti criminali . ‘Criminale’ è un termine scelto. La parola precisa per chiamare chi, davanti alla bellezza pura, non è capace di altro se non di umana miseria. La spazzatura e il degrado si sommano alla decadenza dietro facciate barocche e fontane maestose. Un quartiere di prostitute e auto ormai inutilizzabili sta a pochi passi da stazione e porto, in pieno centro storico. Eppure la ricchezza decadente dei palazzi signorili racconta di una Sicilia più che prospera: opulenta.

Ha tre piazze, Catania, che valgono il viaggio. Sono di una bellezza che stordisce. Ha i giardini ottocenteschi più eleganti che abbia mai visto. Un’oasi di frescura per una città calda e lenta. Un luogo senza tempo.

 

Non merita mezze misure questo pezzo di Sicilia. Le sfumature si, quelle necessarie alla sua indole barocca, messe tutte insieme per stupire chi le vede. Qui una cosa bella lasciata sola non ha senso, la bellezza merita una rumorosa compagnia. Eppure il brutto, il degrado e l’emarginazione non vanno lasciati soli.

Catania è barocca anche quando è liberty. Lo è in tutto, ma con eleganza.

A Catania non si mangia si stordiscono le papille gustative. Questa città, aperta come le vocali della sua lingua, ha poco tempo da spendere per i convenevoli: la gentilezza e il rispetto non si coprono col tono della voce. Poca ipocrisia è concessa, meglio la sincerità: sorridi se sei allegro, appari annoiato se lo sei, alza la voce se è il momento. Catania parla catanese, senza timore, con naturalezza e piacere.

Qui in questo pezzo di Sicilia il bello e il brutto vivono insieme senza disturbarsi troppo l’un l’altro.

È tempo che il bello si armi per fare la guerra al brutto, qui a Catania. Questa città lo merita. Se lo meritano i suoi abitanti chi vi scrive non può saperlo.

Psp (post scriptum politico). Il sindaco di Catania è del PD, ex Ministro della Repubblica e influente elefante del partito…non ho sentito dire molto sulla spazzatura, le prostitute in strada, di giorno, in pieno centro, le auto senza ruote, i divani vecchi sui marciapiedi e l’abusivismo degli ambulanti. Anzi non ho sentito dire nulla.

Isole Eolie

Lipari

Delizioso borgo adagiato ai piedi di una rocca che pullula di un turismo di massa ma tranquillo. Tante barche, poche spiagge. Paesaggi mozzafiato tra scogliere scure che si sono prese a forza un loro pezzo di mare. È come se questa isola avesse costretto il blu unico del Mare di Sicilia a lasciarle un po’ di spazio.

Lipari è uno scoglio alto quanto una montagna che cola verso il mare.

Salina

Abbiamo tutti un’isola deserta della mente; un’utopia utile, come l’acqua sulla brace, a spegnare le delusioni della città, i ritmi incalzanti del lavoro e ogni ansia del domani.

Salina somiglia a quell’utopia: Piccola, indifferente al mondo fuori. Se non fosse per i turisti che l’assaltano rimarrebbe un piccolo paradiso per chi chiede una vita dolceamara.

Ps. Del pane cunzatu vi diranno tutti: prendetene metà. Voi lo prenderete intero e pagherete per il vostro peccato.

Panarea

Un’isola bella e bianca, tutta bianca. Tutta pulita, tutta ben tenuta, tutta uguale. Una Costa Smeralda in miniatura. Non si riconosce il vecchio dal nuovo, non ci troverete persone vere ma ristoranti, case vacanza, negozi di souvenir e gente ricca, circondata dal mare più bello e più limpido. Bella e finta.

Stromboli

Un’isola magica abitata da persone che vivono ai piedi di un vulcano che sputa lava. Tutta bianca, molto turistica ma genuina. Un luogo di gente che “se la vive”. Un luogo di intrepidi equilibristi sempre in bilico sul filo. Le sue spiagge nere nere, fatte di polvere vulcanica e le sue rocce pastose e scure la fanno sembrare un mondo a parte.

E forse Stromboli è proprio questo: un mondo a parte, dove le persone vivono alla giornata, in una precarietà rassicurante con un ottimismo ineguagliabile. Tanto ottimisti che hanno imposto il bianco lucente delle case a questo gigante nero. Salgono tutti su fino alla piazza del paese, ventilata e piena di balconate panoramiche. C’è chi sale ancora più su fino alla bocca del vulcano. Noi ci limitiamo a guardarlo dal mare all’imbrunire, questo gigante sputafuoco. È una pentola che bolle Stromboli.

Le Eolie sono disegnate dal vento e dalla natura più violenta. Le genti che le abitano hanno imparato a convivere con dolcezza con quei giganti di foco, con quei venti che soffiano sempre, almeno un pochino.

Garibaldi disse della Maddalena che era il posto perfetto per un marinaio come lui perche si sentiva come su una nave in mezzo al mare. Le Eolie le avrebbe amate ancor di più. Gli eoliani sono tutti dei marinai che sfidano il mare.

Sono viziato

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Sono viziato.

Non ho mai vissuto in periferia, circondato da palazzoni a mille piani, tanto cemento e macchine. Ho avuto la fortuna di crescere in quelli che nella mia Sardegna si chiamano ‘villaggi’ (Simili ai subarbs americani). Villette unifamiliari con il giardino, vicine alla campagna e al mare. Ho studiano nel centro città, tra viuzze e palazzi disegnati dai secoli, dove le persone resistono all’invasione delle auto, dove ancora ci sono segni della vita di quartiere e la gente si saluta per strada.

Qui no. Qui nella periferia vera è il cemento che vince. L’asfalto e le auto. Qui vince l’alienazione, qui la società è spaccata in tanti io, soli, spaventati, a volte infastiditi, che lottano ogni giorno per ritagliarsi uno spazio di esistenza e difendere la propria dignità. Qui il supermercato riserva uno spettacolo inquinante.

Supermercato

Se avete dubbi sulla direzione che il nostro mondo occidentale sta prendendo, mettetevi in un angolo in un grande centro commerciale di periferia e osservate le persone; osservate chi siamo diventati. Si arriva in macchina, girando nel parcheggio alla ricerca del posto più vicino possibile all’entrata; per poi rassegnarsi a quello non vicino. Si entra col carrello, un grande carrello, che quasi sempre si riempie. C’è il parcheggio selvaggio dei carrelli e dei cestini, perché non importa se da fastidio il mio carrello in mezzo alla corsia, non ha importanza se qualcuno inciampa sul mio cestino o se con il menefreghismo impedisco il passaggio: io parcheggio dove mi pare! “Chi va sano va piano e va lontano” diceva sempre mia nonna: è arrivata con la mente lucida a 98 anni, forse torto non aveva. Invece nei supermercati corrono tutti, presi dalla fretta. Che sia lunedì o sabato, loro hanno fretta. Fretta di comprare, fretta di consumare. Non importa chi si urta, chi si scansa per riempire la propria sacca di pomodori o per pesare le banane. Ciò che conta è arrivare primi, fare in fretta, comprare il più possibile al prezzo più conveniente possibile. Così la spesa diventa faticosa e stressante. Ci sono mariti e mogli che litigano, persone irritate dalla lentezza del vecchietto col carrello davanti a se, oggetti che cadono urtati da chi fa finta di niente continua ad andare e commessi stanchi di farsi strada chiedendo il permesso per scaricare la merce in mezzo ad una folla di zombie.

I bambini, futuro del mondo

Ma la cosa più triste sono i bambini; come stiamo educando il futuro del mondo? I bambini al supermercato piangono; stanno in mezzo a mille cose da mangiare, mille giocattoli, mille oggetti che raccontano l’opulenza di un mondo mai tanto ricco, eppure piangono. Piangono perché fanno i capricci per un giocattolo, per una merendina o perche si annoiano. Alcuni genitori mostrano loro gli oggetti, si fanno aiutare a fare la spesa, spiegando gli sconti, il rapporto qualità prezzo o delle scadenze. C’è chi per tenerli buoni usa un Tablet o uno smatphone, trucchetto da supermercato come da pizzeria. Quando un bambino piange è difficile rimanere impassibili, se poi il bambino è tuo figlio è impossibile. Ma il lavoro di un genitore non consiste nel non far piangere il proprio figlio, consiste nell’educarlo. Che messaggio trasmettiamo ad un bambino quando ne assecondiamo i capricci? Che può avere tutto, basta frignare. Anche se nella vita non funziona così. Che adulto sarà un bambino educato al consumismo fin da piccolissimo? Un adulto consumista, pronto a passare i suoi sabati chiuso in un centro commerciale a comprare. Che educazione diamo ad un bambino alienato davanti ad un Tablet invece che educato alla pazienza che i rapporti umani comportano? Un bambino non educato ad annoiarsi o ad ascoltare – seduto in pizzeria- i discorsi degli adulti, per imparare da quei discorsi. Recentemente un maestro di scuola spiegava quali sono i problemi con i bambini di oggi per un insegnante. Raccontava che due dei più grandi problemi sono il calo dell’attenzione e la difficolta di relazionarsi in modo emotivo e generoso con gli altri bambini. Usiamo la tecnologia e il consumismo per liberarci del pianto dei nostri figli, senza pensare al significato di quel pianto. È comodo lasciare un bambino davanti al Tablet a guardare cartoni o giocare con qualche app, ma è il miglior modo di voler male a nostro figlio; il migliore per far male i genitori. I bambini si devono annoiare, i bambini devono imparare il valore ed il senso del denaro da adulti, devono usare la noia per imparare ad immaginare; per imparare a pensare. E se piangono per capriccio, quello è un pianto sano, lasciate scorrere quelle lacrime perché li cureranno dai vizi, li educheranno alla vita.

Soli

I centri commerciali sono l’esempio più forte di una società sbagliata e stupida, destinata a fallire. Una società dove le macchine hanno sostituito le persone; i centri commerciali il mercato di quartiere; le aiuole i giardinetti e i canali tv per bambini le partite a pallone o a campana con gli amichetti sotto casa. I problemi sono lo smog, il sovrappeso, i mal di vivere e la paura. Perche se ci divide solo un muro o un pavimento non salutiamo più il vicino di casa, non sappiamo come si chiama, ma ascoltiamo i suoi passi, conosciamo i suoi gusti musicali, le sue liti coniugali e i film che guarda. In alcuni appartamenti poggiando una mano sulla parte che ci divide potremmo sentire il calore della sua. Il calore umano di quell’essere anonimo che abita con noi.

Liberi

Rimango abituato all’umanità delle relazioni. Rimango disponibile verso il prossimo, dando per scontato di avere di fronte una brava persona. Non è ingenuità o utopia stupida, ma una scelta di principio, di umanità. Rimango attaccato ai tempi della natura, che soli sanno connetterci al mondo. Sono geloso del silenzio, che è il tempo della musica dei pensieri. Continuo a credere che il tempo vada assaporato. La vita non si consuma, si assapora. Per essere liberi davvero dobbiamo ripudiare questa società ingorda; tanto che rischia di estinguersi per cannibalismo. Ci stiamo condannando alla solitudine, all’insoddisfazione, ad un mondo tutto umanizzato, a non poter respirare l’aria inquinata, ad uccidere i ghiacciai. Ci condanniamo ad essere eterni insoddisfatti, mai sazi di quel che abbiamo, sempre desiderosi di consumare ancora, come dei drogati del consumo.

Fermatevi un momento a pensare a quello che potremmo fare con le conoscenze che abbiamo. Fermatevi a pensare a come potremmo vivere se fossimo più interessati alla qualità che alla quantità. Provate a respirare il respiro della natura e a sentirvi parte di questo mondo che sembra tanto piccolo ma che è immenso.

Non ho ancora i capelli bianchi per insegnare, ne saggezza da regalare; non credo di essere neanche troppo originale. Posso solo dire cosa ho capito: urge cambiare; rallentare; pensare; vivere.

Fuoco e fiamme

Dedicata a voi che date fuoco ai barboni.

Avete tutto il mio disprezzo.

Il mio disprezzo di uomo; il mio disprezzo di essere pensante; il mio disprezzo di persona civile. Il disprezzo è l’unico sentimento umano che meritate.

Se potessi vi espellerei dalla razza umana; se voi foste la maggioranza, vorrei essere espulso io.

Non dite che il mio è odio, perche non lo è. È solo pacifica, meditata, umana saggezza.

Al centro di tutto

mw_mediaarchive_image_685f5ee6678eec07314e3ddbde8dd09a_ricostruzione_3d_nuraghe_arrubiuDopo aver letto un articolo apparso su Sardegnamondo e relativo alla riflessione di Giuseppe Galasso, apparsa sul Corriere della Sera, mi sono sentito in dovere di fare alcune precisazioni.

Non sono uno storico, sono andato a memoria e potrei non essere stato impeccabile per quanto riguarda le date; se c’è qualche errore chiedo venia. 

Devo dire che il suo articolo Galassi è la stantia ripetizione di una serie di banali, offensivi ed infondati stereotipi. Tale discorso si regge sostanzialmente su due pilastri: su una pesante ignoranza in merito alla storia della Sardegna e su una malcelata presunzione di superiorità. Mentre la prima si cura con la conoscenza, per la seconda c’è poca speranza. Il fatto è che l’Italia, il suo mondo accademico, intellettuale e politico hanno sempre marginalizzato la Sardegna descritta come un mondo a se -cosa che lei di fatto riafferma- lontano dall’Italia e dal continente e dunque estranea al progresso e ai mutamenti storici della civile Europa. Un’isola sperduta che continua ad essere sempre uguale a se stessa, rimasta immune dalle vicissitudini storiche. E’ vero che lei fa riferimento all’Unità d’Italia e alla vita in comune; ma è curioso che nessuno citi mai la storia sarda precedente alla nascita del Regno d’Italia, è curioso che si ignori che la Sardegna esistesse anche prima. Vede Galassi, se usciamo dall’ottuso  e prevalente sguardo accademico -che vuole la cultura classica come metro di ogni cosa definibile come ‘civile’- scopriamo che senza le civiltà che l’hanno preceduta i greci e i romani avrebbero continuato a vivere nelle capanne. Si ignora, ad esempio, che la nostra isola ha ospitato una delle principali civiltà del mondo antico, quella Nuragica: la principale civiltà megalitica del mediterraneo, con un’importante ed enormemente progredito sistema di fortificazioni, una flotta navale, una grande conoscenza ingegneristica, una raffinata arte artigiana, la più evoluta e pregiata lavorazione dei metalli del mondo antico, ed una precisa scienza astrologica. Una popolazione che tesseva rapporti commerciali con tutte le principali civiltà mediterranee dell’epoca. Una civiltà che con la datazione dei Giganti di Monte ‘e Prama sarebbe l’inventrice della statuaria monumentale in occidente. Si ignora il progresso della Sardegna nel medioevo, quando per 6 secoli costruisce i Giudicati: monarchie ereditarie soggette al controllo di organi consultivi parlamentari e al popolo, che aveva per legge diritto di condanna a morte del sovrano se ritenuto tiranno. Giudicati che giunsero a scrivere la Carta de Logu, sistema di leggi scritte nella lingua del popolo (usata ufficialmente già 200 anni prima di quella italiana) che tutti nel regno erano tenuti a rispettare, senza distinzioni: un embrione di costituzione moderna, qualcosa a cui il grosso d’Europa arriverà solo nel alla fine del ‘700. Poi c’è stata la dominazione spagnola per 3 secoli che ha segnato usi e costumi, lingua e cucina. Infine, in un ‘700 tumultuoso per tutta l’europa arrivarono, per caso, i Savoia. Dei duchi di montagna, che parlavano francese e che francesi si considerarono fino a quando non intuirono di potersi espandere verso la penisola. Così verso l’inizio dell’ottocento i sardi iniziano a parlare una lingua sconosciuta, imposta dai piemontesi -che neanche questi sapevano parlare- e che nulla ha a che fare con la loro. Da qui inizia la nostra storia in comune. Una storia alla quale non manca uno sfruttamento delle materie prime in stile coloniale da parte della borghesia piemontese e genovese durante i primi decenni di regno savoiardo, non mancano le cacciate della nobiltà esistente per sostituirla con quella piemontese, la soppressione degli organi governativi sardi, il disboscamento dell’intera Sardegna meridionale(cosa che ne modificherà persino il clima) e l’impoverimento complessivo dei sardi che sfocia alla fine del ‘700 in una vera e propria rivoluzione con la quale viene costretto a scappare il viceré piemontese. Mi rendo conto che per l’Italia la Sardegna sia un mondo a se, ma sono convinto che pure l’Italia per i miei nonni era un misterioso concetto. Perché se è vero che l’Italia esisteva da prima di diventare Stato, è vero anche che la Sardegna con questa Italia non aveva avuto nulla a che vedere. Se le altre regioni della penisola avevano un rapporto di cultura, storia e lingua in comune -ad esempio il Rinascimento o la ricerca comune di uno standard di lingua unitario, dalla Scuola Siciliana a Dante, fino a Manzoni- la Sardegna aveva sviluppato una identità propria, come pezzo del Regno di Spagna. Fino al ‘700 alle nostre elite, nobili del prospero impero coloniale spagnolo, dovevate apparire come un insieme di piccoli regni divisi su tutto, una penisola in decadenza -come ben descriveranno un secolo dopo alcuni illustri francesi in viaggio per l’Italia- la cui unica parte progredita (il Regno delle due Sicilie) era imparentata con la corona spagnola. Vede caro Galassi, è questione di prospettiva. Il problema sta proprio qua: se non si riconosce l’alterità oggettiva della Sardegna, per storia, cultura e lingua, non la si capirà mai. Se non si considera la Sardegna con la sua diversità e non la si rispetta, questo rapporto con l’Italia continuerà a basarsi su un malinteso di fondo. Insomma è chiaro che se la Sardegna per voi ‘penisolani’ continua ad essere la periferia; diventa legittimo, che lo sguardo della Sardegna diventi sempre di più uno sguardo autonomo e rivolto all’Europa, sempre più distratto da questa Italia che si riduce ogni giorno di più a periferia.

Del resto, prima di diventare italiani, noi ci siamo sempre sentiti a nostro agio, qui nel Mediterraneo, al centro di tutto.

Questo articolo si era perso tra mille bozze, ma dopo 3 anni gli facciamo prendere aria, perche fa tristezza il pensiero che debba rimanere nel buoio della soffitta dei pensieri, o se preferite la si può chiamare volgarmente “dimenticatoio”.

La casta e il “pericolo populista”

Populismi vs la casta

Ormai la guerra di valori è iniziata: da un lato i populisti dall’altro la casta.

Nessuno di questi due termini rimanda a sentimenti positivi ne suggerisce ottimismo. Se da un lato il populismo usa gli istinti più stomacali del popolo per attrarre consenso contro un nemico, dall’altra la casta racconta di un gruppo oligarchico di potenti e corrotti gruppi di potere, interessati solo a conservare, se non accrescere, il proprio potere individuale a costo di opprimere diritti, valori e dignità altrui. Una semplificazione che merita complessità.

Per capire cosa, veramente può accadere in questo 2017, dobbiamo andare a fondo, a costo di sporcarci.
I movimenti populisti sono tra loro molto diversi, alcuni pericolosi.

1) Populismi della restaurazione.

Germania. AFD (Alternativa per la Germania), partito neonazista che dice di non essere nazista ma propone cose che ai nazisti sarebbero piaciute un sacco, cresce e probabilmente entrerà in parlamento. (NB. ripudio i nazisti, ragion per cui non inserirò link che possano migliore l’indicizzazione di un partito la cui ideologia disprezzo )

Francia. Marine Le Pen, sembra meno pazza della sua collega tedesca, ma vuole tornare alla grande Francia che esiste ancora e può esistere solo nella fantasia del nazionalismo francese e dei nostalgici gollisti.

Regno Unito. Liberati della matrigna Europa, stanno pericolosamente spostando il timone verso gli USA trumpiani e la prima ministra May racconta agli inglesi che sono “grandi” e possono tornare ad essere grandi come un tempo: il che fa sospettare che anche loro ci credano sul serio!

Italia. Salvini ha la faccia come le ruspe e non rinuncia a ogni occasione che gli si presenta per metterla – la faccia- davanti ad ogni cosa: terremoti, emergenze neve o sagre di paese. Il suo cavallo di battaglia è la difesa del suolo patrio dall’arrivo di immigrati pericolosissimi che rubano il lavoro, sporcano, rischiano la vita in mare per sport e hanno gli occhiali firmati e i telefonini comprati coi soldi nostri (60 al giorno dice), mentre dormono in hotel stellati. La sua soluzione al problema non è chiara, quando è chiara non è praticabile e quando è praticabile ci fa regredire al Medioevo.

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Questi sono i movimenti di restaurazione. Restaurazione dei confini nazionali e delle monete. Restaurazione, in alcuni casi, anche di sistemi repressivi che contemplano la tortura e di leggi che discriminano per razza, religione o intervengono in condotte private. Alcune proposte sulla difesa personale presentate dalla Lega Nord, ad esempio, consentirebbero di uccidere un essere umano se entra nel giardino di casa tua, perché sta violando la proprietà privata, che evidentemente è considerata più importante della vita altrui. Un assassinio preventivo, che dovrebbe maggiore sicurezza…come le guerre preventive di Bush che infatti hanno eliminato il pericolo terrorismo terrorismo…seh!
Sono movimenti che si basano sull’idea che delegando i problemi a chi li vuol risolvere -solitamente leader assoluti- con il sistema binario, tutto migliori: la democrazia no si riforma, si liofilizza.

C’è anche il UKIP inglese di Farage che ha vinto il referendum per uscire dall’Europa ma ha esaurito il suo ruolo storico, dato che la prima ministra inglese sta facendo esattamente quello che avrebbe fatto lui. Poi c’è Trump, che non è europeo ma avrà grande influenza sull’Europa e può stare nella famiglia della restaurazione sentendosi comodo, comodo.

2) Populisti delle democrazia diretta.

Poi ci sono i populisti della democrazia diretta: Podemos in Spagna, Varoufakis in Gracia e non solo, i Pentastellati in Italia.
Movimenti che nascono dal basso, dalla stanchezza di classi istruite che considerano inaccettabile il sistema economico vigente e la spregiudicatezza della casta. Sono uniti da una figura-megafono che funge da sintesi della pluralità di un mondo complesso, spesso disorganizzato a volte privo di esperienza.

Spagna. Il movimento Podemos nasce dalle proteste di indignados che occupano per mesi la piazza Puerta del Sol di Madrid, dalle assemblee aperte di quartiere di Barcellona e tante altre capitali iberiche. Un gruppo di professori universitari e qualche intellettuale puro fanno da classe dirigente, Pablo Iglesias da Leader carismatico e unificante. Podemos vuole restituire ai cittadini il controllo delle scelte politiche attraverso una democrazia  partecipata, rompendo il meccanismo bipartitico spagnolo. La formazione morada lavora per una più equa distribuzione della ricchezza lavorando per una modifica progressiva del sistema economico mondiale, un salario minimo garantito, agenda ecologica, lotta alla corruzione e rottura dei legami tra la politica e i grandi poteri privati che hanno il potere di influenzare ogni politica pubblica.

Curiosità: P. Iglesias -oltre ad essere un docente univeristario e avere antenati con ruoli politici importanti in Spangna da entrambi i rami della famiglia- parla molto bene la lingua italiana e conosce la storia tricolore; cita spesso Gramsci, Machiavelli, Calvino e Berlinguer. Ha importato dalla politica italiana e quella spagnola  il termine “casta”. Molte delle sue idee hanno radici nei movimenti di sinistra che hanno caratterizzato le democrazie Latinoamericane nel decennio passato (Argentina, Cile, Venezuela, Ecuador, Uruguay, Bolivia o Brasile).

Italia. I 4 Stelle, li conosciamo: comitati nati dalla società civile per risolvere problemi locali, spesso legati all’ambiente, che dialogano e finiscono per diventare un unicum con Beppe Grillo, le sue idee ecologiste e la sua forma di populismo anti-casta e anti-sistema economico che disegnano un mondo con infinita fiducia nell’evoluzione tecnologica e nella rivoluzione della rete.

Grecia. Syriza -partito del Primo Ministro greco tsipras- sembra essersi adeguato alle politiche di asterità imposte dal Bruxelles, ma rimane ideologicamente critico ne confronti del sistema economico eruopeo dipendendte dalla speculazione finanziaria e da quello che considera uno strapotere tedesco.  Intanto quello che fu ministro del tesoro del governo ellenico, Varoufakis, tenta di costruire un movimento transnazionale – Chiamato DiEM25 con l’ambizione di raggruppare chiunque consideri il sistema liberista una piaga per l’Europa per riformare il sistema politico europeo restituendo al parlamento comunitario e ai cittadini il controllo delle istituzioni UE. Inoltre si pone tra gli obiettivi quello di scrivere una costituzione europea che rimpiazzi tutti i trattati vigenti.

In America Latina da molti anni assistiamo a una ondata di populismi di sinistra che hanno prodotto importanti avanzamenti nei diritti sociali e civili e nella diffusione di servizi pubblici universali. Citerei tra i più carismatici il sublime Pepe Mujica, ma anche Luiz Lula da Silva e Rafael Correa, ancora in carica. Negli USA i movimenti di protesta contro Wall Street sembrano aver fallito ma Bernie Sanders e le proteste contro il nuovo presidente fanno pensare ad un movimento popolare crescente imparentato con quelli europei e latinoamericani. 

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Se nel caso dei populismi della restaurazione i valori sono vecchi e il senso è quello di rispondere alla paura con le barricate, nel caso dei populismi della democrazia diretta il senso è quello di considerare irriformabili i partiti che già esistono e di tentare una ricostruzione dalle radici del senso stesso della democrazia, restituendo al popolo la supremazia e ridistribuendo la ricchezza.

Due risposte populiste agli stessi problemi. Io, come si sarà capito, tifo per la seconda. Perché il populismo della restaurazione si alimenta di paura; quello della democrazia partecipata risponde con la speranza.

3) La casta

Poi c’è la casta. Un gruppo di forse che raccoglie ancora il cinquanta, sessanta percento dei voti. Semplificando potremmo dire che sono socialdemocratici, popolari e liberali che hanno retto l’Europa negli ultimi venti anni. Qui urge fare un precisazione: chi vota questi partiti non è solo la casta, esattamente come chi ne fa parte.

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Ma se analizziamo quanto fatto da socialisti e popolari in Europa negli ultimi anni, vediamo che le politiche economiche, la gestione del potere e le politiche di austerità e taglio dei diritti sindacali, con conseguente spremitura di classi medie e poveri (impoverimento certificato dall’ONU) in favore dei più ricchi, non ci permette di distinguere gli uni dagli altri.

Spagna: I socialisti hanno preferito astenersi per consentire lesistenza di un governo di destra pur di non allearsi con Podemos e regionalisti.

Germania: i socialdemocratici e democristiani governano insieme da due legislature.

Italia: i governi si reggono dalla caduta di berlusconi con alleanze spurie tra PD e partiti di destra ( Berlusconi, Monti o Alfano).

Allenaze più o meno palesi che disegnano un quadro drammatico per le forze storiche europee evidentemente svuotate di consensi dai nuovi arrivati ed etichettate come casta dai loro stessi militanti.
Accade in Germania dove l’SPD (Partito socialdemocratico) ha pagato con un crollo dei consensi l’alleanza con la Merkel; in Spagna il segretario e candidato premier Sanchez si è dovuto dimettere costretto dalla direzione del PSOE (Partito Socialista Operaio Spagnolo) che ha voluto l’accordo di astensione con i popolari e far nascere un governo di destra, facendo piombare il partito nella crisi peggiore della sua storia e militanti inferociti. In Francia Hollande non è riuscito ad attuare quasi nessuna delle promesse di tassazione della rendita finanziaria e limitazione della spregiudicatezza dei marcati, seguendo, invece, le solite raccomandazioni delle società di rating, tagliando i diritti dei lavoratori. In Italia la riduzione dei diritti sindacali con legge sul lavoro (che mi rifiuti di chiamare con l.inutile e ridicolo inglesismo “Jobs Act”…che fa pure venire in mente “Sister Act”!), i favori ai petrolieri, le alleanze con Berlusconi e Verdini, i proclami sull’Europa caduti nel vuoto, le amicizie con i grandi potentati, i salvataggi delle banche, la pessima riforma della scuola e la furbata della riforma costituzionale bocciatissima nel referendum, hanno visto il PD chiudersi in un conservatorismo incomprensibile infiocchettato da una propaganda spregiudicate e stridente con il malessere del paese. Questo aggravato da decenni di inconsistenza della sinistra, distruzione del legame storico con le grandi lotte per eguaglianza, ricchezza distribuita e diritti sociali. Un popolo progressista che, ormai, non crede neanche più che si possano sperare certe conquiste; che non chiede più di dire “qualcosa di sinistra”, rassegnato com’è al meno peggio e schiavo del pensiero unico liberista, ideologia monolitica e religione intrisa di dogmi.

Possono i partiti che ci hanno governato fin qui svincolarsi dai grossi poteri da cui ormai dipendono? Riusciranno a staccarsi il guinzaglio e camminare liberi o sono troppo abituati alla cattività? Cos’è più pericoloso: che continui a controllare il potere la casta o che lo facciano i populisti?

Lo scopriremo. Presto.

L’odore della guerra

Ho paura che la guerra spazzi via per sempre la civiltà occidentale.

 

Hiroshima dopo la bomba atomica sganciata dagli USA

Hiroshima dopo la bomba atomica sganciata dagli USA

Viviamo in un tempo di incertezza che spaventa e lascia spaesati anche i più ottimisti. Un tempo di potenze ciclopiche che si contendono mercati e risorse, sempre più necessarie in un sistema economico che ci schiavizza al miglioramento costante; che ci impone un consumismo fatto di bisogni indotti ed eterne, conseguenti, insoddisfazioni. Uno schiavismo necessario alla sopravvivenza di un sistema che -pur essendolo- nega di essere ideologia; insensato come tanti altri che -sperimentati nel novecento- godono di pessima fama, anche se forse non erano tanto ingordi da mangiarsi il mondo intero, compreso il futuro della specie.

Il liberismo sregolato sta divorando ogni progresso e di buonsenso; ogni aspirazione di giustizia.

L’io ipertrofico, nutrito dalle condivisioni della nostra immagine, edulcorata con cura maniacale, proposta spasmodicamente nei social, non aiuta. Siamo soli in un mondo dove mangiarsi l’un l’altro: è la regola, indiscutibile. Chi soccombe nel lavoro, chi non accetta le dinamiche sociali o le regole del consumismo e non dà valore a ciò che è materiale, nel migliore dei casi viene raccontato e percepito come un debole, un incapace. La colpa dell’essere poveri diventa, così, solo di chi lo è: ti meriti quel che sei e sei ciò che ti meriti. La provenienza sociale, i privilegi, le difficoltà contingenti non contano, se sei una iena nulla ti ferma. Il valore di un essere umano si misura col denaro che possiede; la sua decenza, non dalla condotta, ma dagli abiti che porta. Nessuno, o quasi, è immune alla religione del secolo: il liberismo.

La crisi economica ha ucciso insieme al lavoro la speranza che il mondo -sempre imperfetto- nel quale viviamo potesse migliorarsi, ridistribuire ricchezza e diritti a tutti i livelli del sistema sociale.

Eppure solo dieci o venti anni fa l’occidente si sentiva forte, capace di tutto. Le crisi erano passaggi, le cadute occasioni per rialzarsi. Negli anni ’90 la partecipazione alla vita pubblica si vedeva, la passione per la politica si sentiva. L’Europa era un sogno realizzato che permetteva di trasformare in fraterni pezzi di mondo, quelli che si erano visti per secoli dalla trincea. L’espansione dell’Europa coincideva con i diritti civili, il miglioramento economico, la democrazia reale, sanità e l’istruzione universali. Più l’Europa cresceva più il mondo conquistava stati moderni, forti, prosperi e più giusti. Molti di noi si sorprendevano dell’Erasmus e  di quanto inaspettate, belle e moderne fossero il resto delle iniziative di quella UE che sfidava la storia.

Le diseguaglianze esistevano, la corruzione anche e le banche non le amava nessuno. Ma se c’era qualche fastidio per la classe politica, qualche opposizione al sistema economico, era dentro la democrazia. Si sperava che quella voglia di cambiamento sarebbe potuta prevale pian piano in quel nuovo, vecchio mondo in progresso costante, chiamato Europa unita.

Poi ci siamo svegliati; storditi, come dopo una telefonata che annuncia un lutto inaspettato in piena notte. Senza capire, abbiamo visto crollare il gran palazzo dorato delle nostre speranze. Abbiamo visto con chiarezza quanto sciocchi eravamo stati, quanto da scocchi ci avevano trattati. Abbiamo visto, e vediamo ancor meglio oggi, il disastro della terza via di Blair, la distruzione da dentro delle socialdemocrazie europee. Abbiamo capito tardi di aver sopportato troppo, di aver consentito che quel pezzo di mondo non cercava più di dialogare col mercato, si era prostituito al mercato. Una prostituzione fatta di finanziamenti pubblici, ricatti e corruzione: agli albori il blairsmo vedeva un mercato che contrattava con le socialdemocrazie, oggi ci ha portati ad un mercato che le leggi le compra.

Se per entrare in Europa bisognava dimostrare cura dei conti pubblici e rispetto di democrazia e diritti civili e umani, oggi per chi è dentro tutto viene consentito, in quelli che paiono più constatazioni amichevoli che vertici tra alleati. Oggi i fatti ci raccontano, che ciò che governa l’Europa sono i mercati ed i loro interessi.  Non potrebbe essere diversamente visto cosa succede:

-le “porte girevoli”(cit. P. Iglesias) che permettono ad ex primi ministri, ministri, politici locali e parlamentari, di sedere in consigli d.amministrazione con stipendi milionari dopo che -casualmente- hanno fatto delle leggine favorevoli per quelle stesse società.

– La tasse basse al capitale finanziario, che paga decine di volte in meno chi deve produrre col sudore della fronte ricchezza vera.

– La riduzione dei diritti sindacali che interessa tutta l’Europa occidentale, senza eccezioni.

– La coincidenza tra i “consigli” delle società di rating e le scelte dei governi.

– La gestione della crisi del debito che, nel caso della Grecia, ha privilegiato la salute delle banche tedesche, francesi e -anche se non si dice mai- pure italiane, a discapito di un popolo intero, ricattato, privato della dignità e ridotto alla fame; quello stesso popolo che ha cementato la cultura occidentale, inventato l’idea e la parola stessa “Europa”.

– Il finanziamento privato dei grandi lobbisti ai partiti politici.

Il cinismo di una intera classe politica europea, più o meno collusa con interessi privati, sta uccidendo in un tempo spaventosamente breve l’esperimento europeo. La Brexit è responsabilità delle classi dirigenti europee, del loro distacco dalle esigenze delle persone comuni; dei nazionalismi che rischiano di mangiarsi l’unica possibilità che abbiamo di sedere al tavolo di chi decide le sorti del mondo. I segnali del disastro sono visibili da tempo, ma da destra e da sinistra nessuno sembrava aver capito. Ora in qualche paese europeo si affacciano leader socialisti che propongono la redistribuzione della ricchezza, che considerano un tabù toccare i diritti acquisiti (come Benoît Hamon). Ho paura che sia troppo poco e troppo tardi.

I populismi, buoni o cattivi che li si consideri, fanno gruppo a destra (la Lega di Salvini, il FN Le Pen, il AFD tedesco, Frage e lo UKIP, i nazionalismi di Polonia e Ungheria, gli USA di trump) ma per dividere, chiudere le frontiere spaventati dal mondo globale, per difendere il poco che resta. I populismi di sinistra o per la democrazia diretta (M5s in Italia, Podemos in Spagna, la sinistra greca e il grosso delle sinistre sudamercicane) rimangono isolati e nazionali, incapaci di costruire una relazione tra forze simili; incapaci di comprendere la portata transnazionale del cambiamento che cercano.

Nei media regna il rumore prodotto da chi ormai ha smesso d fare informazione per convertirla in spettacolo, senza curarsi del decadimento della società civile. La partecipazione pubblica richiede più fatica per convincere dell’utilità della partecipazione stessa che per far sentire la propria voce davanti al potere. Non so quanto il pregiudizio nei confronti dei media sia fondato su una volontà progettata da parte dei grandi poteri ma certamente li favorisce. Far scannare la classe media italiana, ormai povera, contro gli immigrati, più disgraziati di loro, mentre la signora Ferrero ha un patrimonio personale di 23 miliardi di euro (La Regione Sardegna -con 1,6 milioni di abitanti- ha un bilancio di 7 miliardi), favorisce sicuramente la signora Ferrero.

A me la Nutella piace un sacco, sia chiaro, e batto le mani al marito della signora, un genio che è stato capace di costruire un impero grazie a grande intuito e tanto lavoro. Sono il primo a credere che il lavoro e le qualità vadano premiate ma 23 MILIARDI (non milioni, miliardi!) una paersona sola non li può spendere in una vita intera. Probabilmente neanche figli e nipoti (che erediterebbero cifre folli senza aver alcun meriti). Basti pensare che con i suoi soldi, la signora potrebbe regalare duemila euro a testa a tutti gli abitanti del Portogallo (bambini compresi), oppure cinquemila euro ad ogni povero in Italia, o comprare 2,3 milioni di Fiat 500. Allora mi domando: ha senso che persone come la signora Ferrero o l’inventore di Facebook, oppure il patron di Zara, abbiano così tanto denaro da poter risanare il debito pubblico di stati interi? Si può razionalmente sostenere che una persona valga 23 miliardi di volte un’altra? Perche di questo parliamo: del denaro come premio al valore professionale delle persone. Qualcuno mi risponderà che decide il mercato, e nel caso di Ferrero i consumatori. Il problema è proprio questo: quando il mercato è diventato infallibile? Quando ci hanno chiesto se volevamo che il mercato permettesse a una persona di essere così ricca? Io non ho votato mai per questo. Perche, sapete amici che credono nel mercato, io non sono contro il mercato. Ma credo che se il Papa, capo spirituale della Chiesa Cattolica, sovranno assuluto dello Stato Vaticano e inviato dal signore in terra, non si ritiene infallibile perchè solo Dio lo è; forse dovremmo chiederci se questo mercato non stia cagando un po’ fuori dal vaso, no?

Oggi il mondo è conteso da enormi  superpotenze: USA, Cina, Europa (divisissima), Russia e qualche paese che sgomita di tento in tanto o che sta emergendo econmicamente nell’America Latina, in Medioriente e in Asia. Tutte queste potenze dispongono di armi nucleari. Ora, in un mondo dove la popolazione cresce, il sistema economico si basa su una crescita senza fine e le risorse del pianeta sono limitate, cosa credete che accadrà quando inzierà a finire l’acqua, quando il mondo dovrà affrontare problemi legati al cambio climatico o a quella fascia di popolazione sempre più grande in occidente che perde il lavoro sostituita dalle macchine?

Io credo che inizieranno a spuntar fuori delle guerre per accaparrarsi le risorse più preziose. Credo che la cosa più logica sia che chi oggi ha il potere lo voglia mantenere (vedi gli USA), mentre chi cresce economicamente e militarmente voglia contare di più (Vedi Cina e Russia). Tra Russi e USA ci sono stati forti scontri negli ultimi anni, che ci hanno descritto come conseguenza di un Putin pericoloso, ma che in realtà sono il risultato di questo scontro tra poteri nuovi e vecchi poteri che è già iniziato e si gioca in campo neutro: Siria, Iran, Crimea, Turchia e Libia. Quelle che Papa Francesco ha chiamato “guerra mondiale a pezzi”. Russi e cinesi lo sanno e hanno già fatto delle alleanze. L’Europa forse lo sa ma è troppo divisa per concordare una politica estera chiara, oppure vorrebbe evitare di finici in mezzo anche se è alleata degli USA, dato che rimane per geografia in mezzo a tutto. Gli americani la fanno facile dato che confinano solo con Messico e Canada, che non proprio dei vicini guerrafondai e neanche due potenze temibili. Del resto nella seconda guerra mondiale, a noi sono toccati mesi bombardamenti e intere città rase al suolo con milioni di morti civili, a loro un unico attacco Pearl Harbour.

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Nel mondo nuovo l’occidente perderà inevitabilmente il potere preponderante in favore dell’Asia e non credo che una guerra cambierà le cose. Se ci fosse una guerra mondiale, Russia e Cina potrebbero combatterla insieme e la Cina avrà giovani menti di ingegnireri da usare per vincere, milioni di persone abituate alla gerarchia e pronte a difendere la patria.

Anche secondo Gorbacev il mondo rischia una guerra e facci mie le sue sagge parole:

“Il focus dovrebbe essere ancora una volta quello di prevenire la guerra, fermare gradualmente la corsa agli armamenti, e ridurre l’arsenale bellico. L’obiettivo sarebbe di arrivare a concordare, non solo il livello delle armi nucleari, ma anche la stabilità strategica e i sistemi di difesa missilistici.

In un mondo moderno, la guerra dovrebbe essere bandita, perché nessuno dei problemi globali che stiamo affrontando può essere risolto dalla guerra – pensiamo alla povertà, all’ambiente, all’immigrazione, alla crescita della popolazione, alla scarsità delle risorse”

Se non correggiamo questo sistema economico e democratico, riportandolo al buonsenso, all’equilibrio tra ricchi e poveri, alla crescita sostenibile, alla pace come ideale indiscutibile e alla democrazia vera quale strumento con cui  cittadini possono sul serio decidere del proprio futuro informati da media indipendenti, la guerra non si potrà evitare. Perche la decideranno persone che hanno molto denaro e potere e che voglio tenerselo. Persone che non moriranno in una guerra. Noi si. Noi siamo carne da macello.

Forse penserete che sono pessimista. Beh io credo il contrario. Dopo il quadro che ho dipinto, credo ancora che possiamo sopravvivere. Vi pare pessimismo? Io la chiamo ottimismo visionario.

 

Perché la vittoria del NO non fa di questa una bella giornata. 

Qualunque fosse stato l’esito del referendum costituzionale sapevo che l’avrebbe seguito un giorno triste.

Con la vittoria del NO, ci troviamo la nostra bella Costituzione con i suoi piccoli difetti sempre al loro posto; se avesse vinto il SI avremmo cambiato in peggio. Rimane il fatto che  ci troviamo davanti ad un fallimento collettivo: non siamo riusciti a scrivere una seconda parte della costituzione capace di rappresentare il volere del paese nella sua ampia maggioranza.

Questa poteva essere una legislatura costituente, capace di restituire ai cittadini la propria carta migliorata e la fiducia nelle istituzioni grazie al coinvolgimento di tutti. Poteva nascere una costituzione dei diritti, che guardasse alla democrazia rappresentativa come complementare a quella diretta, che aumentasse i poteri del popolo, riconoscesse la specialità di alcuni territori della Repubblica, che aumentasse i diritti. Una costituzione che nascesse dal basso: con una grande condivisione avrebbe avuto una accoglienza molto diversa. In Islanda hanno coinvolto il popolo (crowdsourcing), al quale hanno permesso di esprimere pareri e dare suggerimenti. Se ci avessero anche solo consentito di votare in punti questa riforma, oggi non avremmo più il CNEL.

Invece Renzi ha deciso di farne un plebiscito pro o contro il proprio governo, a poco più di un anno dalla fine naturale della legislatura e dalle future elezioni politiche, che senso aveva? Ha avuto la presunzione di credere che avrebbe vinto a mani basse, contro tutti. Invece ha perso pesantemente. Ha voluto riformare la Costituzione siglando un patto scellerato con Berlusconi e quando il Cavaliere lo ha lasciato a piedi, non ha avuto l’umiltà di coinvolgere nessuno. Non è stato capace neanche di unire il suo stesso partito, dato che una parte del PD non si riconosceva nella riforma. Un disastro politico, insomma. Della carta si è parlato poco in tv e nei giornali, occupati -come sempre- da pettegolezzi e dibattiti  in stile soap opera. Ma la cosa più insopportabile di tutte è il fatto che in Italia, ogni tornata elettorale -europee, amministrative, regionali e referendum- diventa un plebiscito pro o contro il governo di turno. Ma perché non si può votare un presidente di regione, un sindaco o un referendum costituzionale, considerandolo un voto sul merito?

Continuiamo ad ascoltare i conati verbali di decine di opinionisti, analisti, sociologi e sondaggisti che provano a spiegarci nei modi più assurdi il voto del 4 dicembre. Gente con la puzza sotto il naso che vuole trasformare il NO in una specie di Brexit, oppure in un voto anti-renziano. No, amici opinionisti scendete dal piedistallo, un pochino di umiltà! Iniziamo a considerare i cittadini come persone adulte. Sono andato a votare nel merito del quesito, non per o contro Renzi, con me lo hanno fatto in tanti, non tutti, ma tanti. Ho votato NO perché questa riforma non mi piaceva; esattamente come quando voto per il mio sindaco penso se ha migliorato o meno la mia città. Derubricare il 4 dicembre come un voto di protesta signofica banalizzare, ma soprattutto non credere di avere a che fare con dei cittadini ma solo con un popolo bue che vota senza testa. Cosa che invece pensa molta parte delle elite che hanno smesso da tempo di credere nella demcrazia e agiscono da oligarchi.

Nella notte del voto il Presidente del Consiglio ha annunciato le dimissioni: ha fatto un bellissimo, dignitoso e democratico discorso -da signore- che merita assoluto rispetto. Ma non condivido la personalizzazione, ne prima del voto ne dopo. Non credo che Renzi dovrebbe dimettersi, anche se capisco che ormai non può fare diversamente se vuole avere un futuro politico. E lui vuole.

Due parole a Renzi…

Signor Presidente, nella sua città si muoveva con destrezza, con le sue risposte pronte e quella spocchia fiorentinissima che dentro le mura tutti capiscono; ma fuori da quelle mura tutto cambia. Lei fa politica da molti anni, conosce il sistema, e le dinamiche del potere. Non siamo nati ieri, possiamo parlare senza peli sulla lingua. So che lei crede che non si governa contro tutti, per questo tesse alleanze, rende solido il potere, anche a costo di strette di mano poco pulite e di compagni di strada non proprio raccomandabili. Lei crede che sia l’unico modo per arrivare al potere, per tenerlo e per fare almeno ciò che è  fattibile. Fino a prima della crisi questo era il segreto di pulcinella e tutti fingevano di non sapere.

“gli occhi tuoi (ndr.) non hanno idea delle malefette che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del paese; per troppi anni il potere sono stato io” (monologo di Andreotti, da “Il Divo”)

Ma dopo la crisi cambia tutto. Come nel 1992, quando gli italiani smisero di non vedere la corruzione dilaganta, le mazzette, gli appalti truccati, i legami della DC con la mafia e i finanziamenti irregolari dei partiti. Oggi la gente sente l’odore delle menzogne, si accorge delle ipocrisie del potere. Oggi non basta più qualche mancia elettorale per vincere le elezioni.

Questo non è un temporale ma una tempesta. Siamo in mezzo alla crisi del capitalismo globalizzato; una crisi mondiale che da più di venti anni risucchia dalle tasche delle classi medie denaro e benenessere per risputrlo nei conti in banca di quella classe dirigente internazionalista miliardaria che vive di speculazione e rendite. Cosa ha fatto lei, Matteo, davanti a questa crisi? Quale soluzione offre? Perche quando fa le cene per raccogliere finanziamenti con le grandi multinazionali, che si comprano le leggi -siamo adulti ormai- possiamo pensare che lei sia li per cambiare questo sistema. Non nego che oltre ad una riduzione dei diritti dei lavoratori lei abbia fatto una politica di aumento dei salari alle classi medie, con i famosi 80 euro; ma questo non ha a che fare con la messa in discussione di un sistema.

Il suo primo errore, segretario, è non aver capito che l’Italia non è una benestante Firenze di bottegai che vivono di turismo, nella quale basta conoscere i pezzi giusti del puzzle per dare da mangiare a tutti. L’Italia è un paese complesso, plurale e vario: esiste il sud povero, il nord industriale, il centro artigiano e della produzione enogastronomica, esistono le Autonomie e le loro ambizioni nazionali. Non si comanda un paese cosi senza il consenso. Lo sapevano i democristiani, che di permanenza al potere hanno qualcosa da dire. Lo sapeva Berlinguer che non credeva che si potesse governare, neppure con la metà dei voti. La sua energia e la capacità di comunicare che lei ha non la discute nessuno; ciò che discutiamo ha a che fare con la direzione dei sui cambiamenti. Nel suo bel discorso lei ha detto che si prende la responsabilità della sconfitta, che sarebbe lei e solo lei ad aver perso. Presidente questo è il suo secondo, grande errore. L’io non vince, vince il noi. Lei non ha perso da solo, ha perso insieme ad una comunità di persone che più o meno fedelmente ha lottato per il SI. Caro presidente non siamo più dei bambini, non abbiamo bisogno di un babbo che ci dice cosa fare e cosa no. Presidente, in tutto l’occidente le persone chiedono sincerità. Se lei mi dicesse: “caro Benidore, io vorrei umentare i diritti dei lavoratori, invece che ridurli; vorrei  non fare gli accordi con Verdini o prendere i soldi dalle mulinazionali, ma devo, altrimenti neanche 1000 giorni da premier facevo. Benidore, vedi, in questo modo io riesco a farla qualcosina, magari è poca roba, ma meglio poco che niente”. Io la capirei Presidente, la rispetterei molto di più. Se sapessi che lei sinceramente farà quel che può per andare nella giusta direzione, io potrei perfino dirle “bravo”. Invece, da quando lei è salito a Palazzo Chigi, i fatti hanno dimostrato che la sua direzione è la solita: quella dei banchieri, di confindustria, delle lobby. Lei è andato avanti, pensando che molti avrebbero sopportato tutto.

Caro Matteo, il Movimento Cinque Stelle  è arrivato per restare. Non si può ingaggiare, come ha fatto lei, una geurra senza quartiere ad un movimento che non usa solo piattaforme online, ma dal nulla ha raggiunto milioni di persone, riempendo le piazze ovunque è andato; è un moviento di popolo, con le sue grandi lacune, ma che prova a dare una risposta alla più grande crisi economica della storia occidentale. Perche questo stà accadendo e non posso credere che lei non se ne sia reso conto. A destra Meloni e Salvini scladano i motori e prenderanno tanti voti. Se vuole ancora liderare (neologismo voluto)  la sinistra deve dirci chi è, fuori dai denti, con coraggio.

who are you Lenny?” I am a contraddiction”, risponde cosi Papa Lenny Belardo in the young pope.

Quello stesso Papa che incontra il premier italiano e lo minaccia, ricordandogli che lui, il premier, è un evento mediatico già accaduto, mentre lui, Il papa, è un evento mediatico che ancora deve accadere. Lei ha smesso di essere “nuovo” Matteo, e per lei -rottamatore- la vacchiaia è un gran probelma. 

Fortuna che domani è un altro giorno.

Vai e torna vincitore

Risposta all’interessante articolo di Vito Biolchini “Studiate e partite subito: il mio consiglio ai giovani sardi

Caro Vito, Fai un’analisi dei problemi della Sardegna triste, in gran parte realistica, ma non ne condivido la conclusione.

1) Il ruolo della politica

Nelle tue parole, compare un malinconico disincanto per ‘le’ politiche (spero non per ‘la’ politica) incapaci di restituire un’idea positiva di Sardegna; di dare quello slancio che risponda a una crisi pesante, che sembra non volerne sapere di finire. Concordo: ci propinano avanzi di politiche, già provate e già fallite, con i quali realizzano -se ci va bene- piatti mediocri.

Sono un nemico acerrimo dell’idea perversa del liberismo quale igiene del male statalista, che risolve ogni umano problema con la libera impresa, sollevata dal peso dello Stato. Il mercato che definisce una gerarchia meritocratica alla struttura della società è una boiata cosmica! La politica è, e deve essere, il centro dell’evoluzione economica e sociale ma non può essere l’unico. Almeno non nel 2016. Non è più così da almeno un decennio. Le spinte culturali che si agitano nella società sono un gigantesco contrappeso, economico e dunque politico alle istituzioni democratiche. I progressi sociali sono stati spinti solo in parte dagli Stati e molto dai singoli/collettivi. Le persone con buone idee, nel mondo globalizzato, possono fare cose che un tempo erano impensabili.

2) Il grande potenziale sardo

Non è vero che la Sardegna non abbia prospettive. In Sardegna io vedo gigantesche prospettive in campo agroalimentare; nella promozione del design quale evoluzione di un artigianato unico; nel turismo; nella valorizzazione della civiltà nuragica* e culturale in genere; nel settore congressuale**; nel turismo sanitario***; nella produzione media e nell’editoria in lingua sarda****. Vedo praterie intere nel settore della location cinematografiche o in quello discografico. Vedo una Cagliari – che con tutti i suoi problemi- è cambiata drasticamente in 10 anni e che solo negli ultimi 4 o 5 si è aperta al turismo in modo deciso, accrescendo il suo potenziale di attrazione, anche in altri ambiti economici. Le possibilità di fare impresa, innovando in modo creativo, ci sono. Se la politica ci fosse sarebbe tutto più semplice, ma non c’è. Però ci sono le capacità e le conoscenze di questa generazione fantastica. Si può fare tanto, anche nel vuoto della politica.

3) Quanto è bello il continente…

Chi è in Sardegna pensa sempre che fuori sia tutto meglio. E’ un’idea che ci hanno scolpito dentro dall’infanzia. Deriva forse dall’arretratezza post-guerra. O forse lo si pensa perche l’emigrante racconta rose e fiori quando torna; spesso lo fa per orgoglio, altre volte perche fa paragoni impropri: “a Cagliari non c’è niente, invece e Milano o Londra…”. Lo pensa perché siamo specialisti nel mostrare le ferite, mentre altri sono bravi a lavarsi i panni in casa. In Sardegna ci sono mille problemi, ma non ci sono solo quelli.

4) I GGGiovani.

La generazione istruita di cui parli è la più aperta, tecnologica ed internazionale che si sia mai avuta. Nasconde un potenziale pazzesco ed inestimabile. A questa generazione dico di viaggiare, di fare esperienza, neanche in Italia -che è un paese in gran parte fermo- ma all’estero! Però gli dico anche di tornare, di usare quello sguardo nuovo e alieno sulla Sardegna per vedere quanto gigantesco potenziale inespresso nasconda la nostra terra (come racconta Pino Aprile in ‘Giù al sud’). Di riscoprire quella storia, che a scuola nessuno gli insegna e di farne tesoro e spunto per idee e progetti. Non c’è futuro in Sardegna per i giovani, se pensano di usare il solito sguardo: ma se cambiano prospettiva, se trovano nuove strade, il futuro c’è. La Sardegna deve trovare una via originale e creativa verso il futuro e sono i giovani ad avere la responsabilità e il dovere di farlo. Invece di rimboccarvi le mani a fare i lavapiatti a Londra o i camerieri a Berlino, spremetevi le meningi e aprite la Sardegna al mondo! ai giovani direi di tirare fuori quel potenziale, perché li piò far diventare ricchi. Di una ricchezza felice, di una soddisfazione vera, senza malinconie e nostalgia; orgogliosa e in qualche modo ‘balente’.

Salude

* Vedi Nurnet  per renderti conto della mole di patrimonio non sfruttato e del potenziale di idee per valorizzazione economica e turismo sostenibile

**Studio sul valore economico del settore congressuale in Italia 

***Turismo snitario: un mercato da 100 mln di $ destinato a crescee

****Il Consiglio d’Europa sull’importanza economica della valorizzazione delle lingue minoritarie

L’inglesismo insopportabile del giorno: problem solving.

In tedesco si dice Problemlösung, in francese résolution de problèmes, in spagnolo resolución de problemas; in italiano?

problem solving.

Eh si perché noi siamo internazionali, siamo un popolo che parla fantasticamente l’inglese; così bene che ormai non riusciamo a distinguere la nostra lingua dalla altre.

Sarcasmo a parte, siamo gli unici a credere di essere fighi ad usare una parola inglese in luogo di espressioni italiane esistenti (il resto dei paesi citati ci crede ridicoli).

In italiano vero ‘problem solving’ si traduce in: ‘risolvere un problema’, ‘fronteggiare un imprevisto’ o ‘risolvere controversie’.

Se volete parlare in italiano, avete molte possibili espressioni su cui fare affidamento per esprimere un simile concetto; se poi volete farlo in inglese, abbiate la decenza di evitare il minestrone.

Se vi piace tanto questo inglese da utilizzarlo per sostituire (senza alcun senso pratico) parole/espressioni d’uso comune proprie della lingua italiana, beh nessuno vi impedisce di parlare in inglese…sempre se sapete farlo.

Perché la sensazione sempre più forte è che i malati di ‘inglesite’ non sappiano più parlare l’italiano senza usare inglesismi assolutamente inutili ed insensati e che, nella maggior parte dei casi, non sappiano neppure parlare un inglese decente. Usare l’inglese quando si parla inglese e l’italiano quando si parla italiano è così difficile?